A Classic Horror Story: L’orrore ai tempi della citazione

In un’epoca in cui la scelta è così ampia da mettere in difficoltà lo spettatore, è quasi impossibile destreggiarsi tra le opinioni attorno ad un genere come l’horror, da sempre controverso e a vari livelli di connessione con le problematiche sociali del tempo. C’è l’horror di King che, ad esempio, spazia dalle paure ancestrali a quelle comuni più assurde (come ad esempio, cosa accadrebbe se una necessità come una connessione ad internet o un cellulare diventassero i nostri peggiori nemici); c’è l’horror indipendente che crea elaborate metafore per spauracchi non ancora pienamente inquadrati dalla società – come le sette o gli stigmi attorno alla sessualità, la paura delle malattie sessualmente trasmissibili o l’idea che il sesso ti renda in qualche modo “marchiato”. L’horror commerciale ha una funzione più simile a quella della fiaba, con concetti più o meno affascinanti esplorati in modo lineare. E poi c’è l’horror italiano, che nella mente dei cultori sembra fermarsi agli anni ’70, massimo ’80, con i mostri sacri come Fulci, Bava e Dario Argento. Tutto ciò che è venuto dopo è merda fumante, a quanto pare.

Un’etichetta del genere è stata appiccicata anche al film Netflix “A classic horror story”, di Roberto De Feo e Paolo Strippoli, insigniti del premio alla Miglior regia al Taormina Film Fest. Il film pesca nelle leggende italiane, sana abitudine che si sta diffondendo tra i registi ormai stanchi di pescare a casaccio dall’Art Goetia o di inventarsi amici immaginari maligni per bambini con problemi, e precisamente dalla storia di Osso, Mastrosso e Carcagnosso. Secondo la leggenda, queste tre creature avrebbero dato origine alle maggiori organizzazioni criminali in Italia, con contorno di sacrifici umani per placarne la sete.

La storia ruota intorno a cinque persone che usufruiscono di un servizio di carpooling per un viaggio da Nord a Sud. Alla guida Fabrizio, ragazzo calabrese appassionato di cinema, che accompagna una giovane coppia di turisti, un medico infastidito dalla voglia di Fabrizio di documentare tutto e infine Elisa, che sta andando ad abortire. Dopo un misterioso incidente, i ragazzi precipiteranno in un incubo che sembra scritto secondo gli stilemi classici dell’horror.

Forse un po’ troppi stilemi.

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L’uomo senza gravità: tante idee, tutte volate via

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Ultimamente, anche l’Italia si sta cimentando nella produzione di originali Netflix, utilizzando uno stratagemma simile a quello americano: pochi giorni di distribuzione in sala, e poi dritto in piattaforma. È stato così per progetti più seri come il film Sulla mia pelle, e lo stesso vale per prodotti più leggeri. Così, a ridosso della scorsa Festa del Cinema di Roma è arrivato in sala per qualche giorno L’uomo senza gravità, una commedia di Marco Bonfanti con Elio Germano.

La storia segue le vicende di Oscar, un bambino speciale nato “senza gravità”. Fin dai primi istanti di vita fluttua, ma non viene mai chiarito il perché; la madre passa la maggior parte del tempo a nasconderlo, non consentendogli di andare a scuola o di avere amici per mantenere il segreto. Questo finché non è lo stesso Oscar a decidere di stringere amicizia con una bambina, Agata, che per un incidente scoprirà i suoi poteri. A causa di una fuga di informazioni (pur contenuta) la madre decide di trasferire tutta la famiglia in una zona remota del nord Italia. Da lì, la vita di Oscar prende una direzione inaspettata.

La domanda più curiosa a cui risponde il film è questa: si può girare un prodotto che non abbia sceneggiatura?

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I am mother: se l’umanità merita un’altra chance

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L’avanzamento problematico dell’intelligenza artificiale è un argomento inflazionato nel genere fantascientifico, soprattutto se i protagonisti della vicenda sono robot. Non sembra essere cambiato molto dai tempi di Isaac Asimov e delle sue tre leggi, se non qualche infrazione delle stesse a discrezione del singolo autore, ma il lavoro fatto in I am mother cerca di andare al di là delle dicotomie e dei semplicismi in cui è semplice cadere quando si maneggia un genere. Il film, una produzione australo-americana presentata al Sundance Festival a gennaio di quest’anno ed arrivata su Netflix lo scorso 11 giugno, segue la storia di un robot chiamato Madre che in 24 ore crea un essere umano da un embrione criogenizzato. La piccola, che per tutta la durata del film verrà chiamata Figlia, ha soltanto questo robot come punto di riferimento e sembra crescere serena, ben istruita, nutrita, amata e protetta da un mondo esterno che potrebbe essere mortale per lei.

Tutto scorre con serenità finché la figlia, ormai adolescente, non inizia a porsi altri dilemmi morali oltre a quelli sottoposti dalla Madre. L’arrivo di una donna dal mondo esterno (interpretata da Hillary Swank) rimescolerà completamente le carte sia per la Madre che per la Figlia.

ATTENZIONE: Il testo a seguire contiene SPOILER (menzione di The Promised Neverland)  Continua a leggere

Bird Box: quando anche lo “show don’t tell” non basta

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Nelle appena scorse vacanze di Natale, l’horror Bird Box, tratto dal thriller omonimo di  Josh Malerman del 2014, ha conquistato il pubblico di Netflix e dell’internet in generale, con tutti i meme del caso. Diretto dalla regista danese Susanne Bier e con protagonista Sandra Bullock, il film segue le vicende di Malorie Hayes, pittrice incinta che vive con sua sorella Jessica (Sarah Paulson), la cui vita viene completamente sconvolta quando in città incominciano a manifestarsi delle creature sconosciute invisibili allo spettatore, che inducono i personaggi al suicidio in caso di contatto visivo.

La natura delle creature – aliena o meno che sia – non è chiara ed è giusto così: ciò che conta è il senso di disperazione e oppressione che si crea nel momento in cui bisogna barricarsi in casa e non ci si può fidare dei propri occhi o di ciò che si sente. Dopo il suicidio improvviso di Jessica, Malorie viene soccorsa da un gruppo di sopravvissuti rifugiatisi in casa di un uomo in un quartiere residenziale; dal momento in cui Malorie vi entra, il gruppo cerca di studiare escamotage di sopravvivenza plausibili per fronteggiare queste creature.

La scoperta della capacità delle creature di agire attraverso i monitor costa la vita a Greg, il padrone di casa, che si suicida dopo essere venuto in contatto con una di esse attraverso lo schermo di un computer; successivamente, il gruppo riesce addirittura a completare – non senza perdite – con successo una sortita al supermercato per rifornirsi di provviste.

Nel gruppo è presente, oltre a Malorie, un’altra donna incinta di nome Olympia; nel momento in cui le due donne entrano in travaglio, però, il gruppo incomincia a sfaldarsi per via di un elemento anomalo ammesso precedentemente, e quell’equilibrio già precario che il gruppo era riuscito a trovare con fatica si interromperà.

Il tutto viene presentato come dei flashback che intervallano il lungo viaggio di Malorie e di due bambini (la cui identità verrà chiarita successivamente) attraverso un fiume, per raggiungere quello che sembrerebbe essere un luogo di salvezza.

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Bandersnatch: un incubo personalizzato

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Black Mirror e il Natale sono un binomio decisamente insolito, ma che dai tempi di White Christmas (2014) si è dimostrato vincente. L’anno scorso si è chiuso in bellezza col rilascio della dibattuta quarta stagione, che ci ha regalato chicche come Arkangel e Metalhead (più qualche episodio meno riuscito, ma si sa che con Black Mirror va così), e quest’anno l’asticella del rischio è stata notevolmente alzata con il rilascio del chiacchieratissimo film Bandersnatch.

Che cos’ha di tanto speciale? Perché è stato rilasciato come singolo? In fin dei conti, anche Hated in the Nation è lungo quanto un TV movie, ma è semplicemente contato come finale di stagione (magistrale) della terza.

Bandersnatch ha di unico, meme a parte, l’essere un episodio interattivo. Dal proprio computer, tablet o cellulare sarà quindi possibile alterare la prosecuzione della trama attraverso un sistema di scelte multiple; in sé non è una meccanica rivoluzionaria, tant’è che le avventure punta e clicca e le visual novel sono generi popolarissimi, ma applicarla a un girato tradizionale esercita un discreto fascino.

Ed è proprio qui il punto di forza dell’episodio, insieme al resto.

Se contiamo soltanto la trama, Bandersnatch sarebbe un buon episodio di Black Mirror: segue le vicende del giovane Stefan (Fionn Whitehead), intento a programmare la demo di un videogioco ispirato al libro che dà il titolo alla puntata, che a sua volta è il nome di un leggendario videogioco anni ‘80 mai finito. Un gioco di richiami inevitabilmente meta che si diramano per tutto l’episodio, mentre lo spettatore accompagna (o, per meglio dire, spinge) il protagonista sempre più in fondo ad una rete di paranoia e teorie del complotto, con tanto di documentario sulla follia dell’autore del libro e simboli nuovi misti ad altri già visti. Il tutto confezionato in una cornice anni ’80 – essendo il film ambientato nell’emblematico anno 1984 – che razionalmente sappiamo riconoscere come trita e ritrita, ma che a livello istintuale ci piace e ci gasa.

Ma c’è molto più di questo.

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