[Commissione] Alla ricerca di Magica Doremì: la vera magia è darsi un’altra possibilità

Le menti dietro ai grandi franchise dell’animazione fondati a cavallo tra gli anni ’90 e i 2000 sanno bene che il loro pubblico di riferimento è cresciuto. Si abbandonano i giochi, si proseguono gli studi e la carriera – ma molti fan guardano ai loro beniamini d’infanzia con occhio intenerito, facendosi trasportare dalla nostalgia e dalle sensazioni positive che associano ad un determinato cartone o videogioco. Ovviamente c’è chi, pur rispettando tutte le tappe della crescita, resta innanzitutto un fan e un collezionista: una recente statistica dell’NPD riportata sulle maggiori testate giornalistiche dell’anglosfera ha dimostrato che i maggiori contribuenti dell’attuale industria del giocattolo sono adulti collezionisti, che portano al settore introiti che si aggirano sui 9 miliardi annuali. Non è difficile, quindi, immaginare qualcuno che devolve parte del proprio stipendio in gadget di Sailor Moon, un Digivice originale, il primo Pokédex giocattolo o gli scettri magici di Magica Doremì.

Insieme al collezionismo di giocattoli si è instaurato un trend fatto di remake di serie che hanno conosciuto la gloria vent’anni fa, a partire da Sailor Moon Crystal per finire al recente remake di Shaman King. Alcuni hanno ritoccato la serie dandole una veste grafica nuova e una storyline generalmente più vicina al fumetto, mentre altri hanno scelto di celebrare importanti anniversari di un franchise con film e miniserie.

Magica Doremì è un franchise di relativa popolarità, in Giappone come in Italia e nel resto del mondo. In occasione del ventesimo compleanno delle maghette musicali, la Toei Animation ha voluto festeggiare con un film intitolato Alla ricerca di Magica Doremì (intl. Looking for Magical Doremi). Diversamente da altri film celebrativi, questo non è ambientato all’interno dell’universo del cartone animato, bensì in un mondo non diverso dal nostro in cui le avventure di Doremì sono effettivamente una serie televisiva. Il film segue le vicende di tre protagoniste: Sora Nagase, 22 anni, studentessa universitaria che vorrebbe diventare insegnante; Mire Yoshizuki, impiegata di 27 anni tornata da poco in Giappone; Reika Kawatani, lavoratrice part-time di 20 anni e aspirante artista. Le tre rappresentano tutte le generazioni di fan delle avventure di Doremì, unite dal ritrovamento di una sfera magica.

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Dune: guida rapida alla fantascienza contemporanea

A questo stadio dell’evoluzione dei media fantascientifici, Dune si trova in una posizione strana: è uno dei capostipiti delle “space opera” propriamente dette, dato che la storia risale agli anni ’60, ma ogni sua rappresentazione al di fuori delle pagine del libro è derivante da opere che a loro volta sono ispirate al libro di Frank Herbert. Il primo adattamento cinematografico di David Lynch, quello piagato da problemi di produzione che hanno portato ad un’opera ben lontana dall’eccellenza, risale al 1984 – un anno dopo l’ultimo film della trilogia originale di Star Wars, che stando alle parole dello stesso George Lucas è pesantemente ispirato all’iconografia e alle ambientazioni di Dune anche solo in elementi naturali quali la presenza di pianeti desertici (Tatoiine e Arrakis) o l’idea che un “prescelto” possa diventare una figura tutt’altro che positiva. Dunque, il rapporto di Dune con i media da esso derivati è biunivoco, e l’adattamento di Denis Villeneuve è la sintesi di questo rapporto.

Il film, trattandosi di un progetto curato sin nei minimi dettagli sotto il profilo tecnico, si è aggiudicato i premi per la Miglior fotografia, il miglior montaggio, la miglior scenografia, il miglior sonoro, i migliori effetti speciali e la miglior colonna sonora ed è stato inserito tra i Migliori 10 film dell’anno dall’American Film Institute.

Sin dai titoli di testa Dune 2021, sembra di approcciarsi ad un nuovo film di Star Wars – ma è Star Wars che in realtà sembra Dune, ed è da sempre così. Una produzione magniloquente, minuziosa, che traduce ciò che può risultare più ostico nel libro in soluzioni narrative efficaci: alcuni personaggi che nel libro hanno uno spazio relativo, nel film vengono ricalibrati in modo tale che ispirino vicinanza allo spettatore. La storia segue le vicende di Paul Atreides, figlio del duca Leto Atreides e della concubina Jessica, facente parte del clan delle mistiche Bene Gesserit; il giovane viene allevato con l’idea di dover succedere, un giorno, al padre, ma già vive un conflitto rispetto a questa prospettiva. La sua vita viene sconvolta quando la famiglia si trasferisce sul pianeta Arrakis, che costituisce la più grande risorsa di un allucinogeno molto prezioso chiamato Spezia, e il duca Leto viene ucciso a causa di un complotto. Da lì, inizierà il viaggio di Paul alla ricerca di se stesso, diviso tra la sua umanità e una profezia secondo la quale potrebbe diventare una figura messianica.

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Encanto: una parabola multimilionaria con un cuore autentico

Negli ultimi anni, casa Disney ha portato il concetto di “film per famiglie” ad uno stadio successivo rispetto alle storie che abbiamo conosciuto fino circa a dieci anni fa: siamo ormai nel pieno dell’epoca dei film sulle famiglie. Il primissimo esperimento nel nostro secolo può essere fatto risalire a Lilo & Stitch, che non solo accompagna il pubblico nella meravigliosa cultura delle Hawai’i utilizzando il punto di vista non semplice di una bambina che sta elaborando un importante lutto, ma mette la famiglia – biologica e scelta a pari merito – al centro di tutto, tant’è che la celeberrima frase del film recita “Ohana significa famiglia, famiglia significa che nessuno viene abbandonato”. Poi c’è stato Frozen, che essendo però un film del filone delle principesse mette al centro l’autonomia e l’auto-realizzazione di una figura femminile completamente scollegata da personaggi maschili di sorta (in particolare nel seguito); anche Oceania parla di famiglia secondo l’idea di indipendenza da quest’ultima, e la Pixar si è distinta per la commovente storia corale di Coco.

In questo, Encanto è quasi la sintesi di ciò per cui la Disney ha lavorato negli anni per spostare il focus dalle storie d’amore del Rinascimento alla famiglia e al trauma generazionale. Il film, diretto da Byron Howard e Jared Bush, è stato apprezzato in particolar modo per la colonna sonora di Lin-Manuel Miranda ed è stato appena insignito dell’Oscar al miglior film d’animazione.

Il film segue la storia della famiglia Madrigal, una famiglia colombiana dotata di poteri magici ottenuti grazie ad un “miracolo” consegnato alla capofamiglia Alma, rimasta vedova in giovanissima età. Ogni membro della famiglia riceve un “dono” all’età di cinque anni – le figlie di Alma, Pepa e Julieta, sono rispettivamente in grado di controllare il meteo e guarire le ferite; e così anche i nipoti hanno doni particolari, che vanno dalla superforza alla capacità di cambiare aspetto. L’unica che non ha un dono è Mirabel, la più piccola delle figlie di Julieta, perché la sua cerimonia del dono si è interrotta senza spiegazioni.

La famiglia Madrigal è in grande fermento per la cerimonia del piccolo Antonio, nel giorno del suo quinto compleanno, ma Mirabel è l’unica ad accorgersi che la “Casita” dove vive la famiglia è in pericolo.

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È stata la mano di Dio: i limiti e la bellezza di una confessione

Scrivere di un film quando si è già sviscerata abbondantemente la scheda tecnica per lavoro è complesso. I dettagli, quelli noti, si sanno a memoria: È stata la mano di Dio è l’ultimo lavoro di Paolo Sorrentino, dopo una stagione 2019-2020 dedicata esclusivamente al serial con The New Pope, presentato a Venezia 78 il due settembre. Torna in scuderia Toni Servillo, musa del regista partenopeo, a fare da contraltare all’esordiente Filippo Scotti nel ruolo di Fabietto Schisa, giovane della Napoli bene degli anni ’80 che si lascia scivolare addosso la storia – Maradona al Napoli, un evento tragico che cambierà la sua vita e la sua prospettiva sul mondo. In background, i grandi amori di Sorrentino: la sua terra natale e il cinema, che s’insinua piano nella vita di Scotti-Sorrentino (perché questo è quasi un auto-biopic, se vogliamo) e finisce per diventarne protagonista nel bene e nel male, perché tutte le persone che hanno dolori (o speranze) prima o poi sentono il bisogno di mettersi a raccontare una realtà “altra”, o la propria realtà vestita con l’abito delle grandi occasioni.

Per un lavoro così personale, Sorrentino segue la scia di un altro grande maestro del cinema intimista (ma non solo): È stata la mano di Dio, dopo il Leone d’Argento, ha soggiornato nelle sale italiane ancora martoriate dall’emergenza sanitaria per qualche settimana, per poi approdare su Netflix lo scorso 15 Dicembre, corredato di una serie di tenerissime featurette in cui Sorrentino porta lo spettatore, che coincide con il punto di vista della cinepresa, a spasso per il Vomero e per il centro storico e riflette, chiacchiera, racconta aneddoti sulla sua infanzia, parla del suo film preferito – che in questo lavoro si sente ancor più che in Youth, che di quel film sembrava proprio la traduzione postmoderna.

Il divino e l’umano – quell’umano basso, profano, immediatamente comprensibile con il quale si tende ad identificare Napoli e tutta la produzione artistica partenopea – si mescolano nella vita di un adolescente che forse non ha ancora i giusti strumenti per capirli e farli propri. Ma nonostante le abbondanti due ore di girate, È stata la mano di Dio non rappresenta che l’inizio della vita di Fabio “Fabietto” Schisa. Prima della vita c’era l’abitudine – due fratelli, Marchino e Daniela, i genitori che scornano ma poi si rappacificano per un motivo che se non si vive in prima persona può sembrare pure banale, la famiglia allargata che assomiglia ad un circo popolato da personaggi buffi, grotteschi e sentimentali. E poi, il dolore.

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C’è qualcuno in casa tua: la callout culture, quella vera, uccide

In principio furono Carpenter e Craven, fu il genere home invasion, ma soprattutto fu la saga di Scream negli anni ’90, che una fetta statisticamente rilevante di pubblico ricorda per la versione parodistica in Scary Movie oltre che per l’originale. C’è qualcuno in casa tua è un mix sperimentale di tutto questo: Patrick Brice (Creep) adatta l’omonimo romanzo del 2017 di Stephanie Perkins e segue le vicende di Makani Young, ragazza hawaiiana trapiantata a casa della nonna in una cittadina nel cuore del Nebraska, uno di quei paesotti con una sola scuola superiore circondati da quei campi di mais perfetti per un inseguimento drammatico alla fine di un film horror, e le villette poste a centinaia di metri, se non qualche chilometro l’una dall’altra perché negli Stati Uniti non c’è un concetto di comunità a meno che non si parli di vicinato o di quartieri, dai quali comunque ci si muove solo in auto perché il massimo del trasporto pubblico esistente è lo scuolabus sul quale dozzine di adolescenti si riversano senza particolare voglia di vivere.

A cavallo del diploma, strani eventi iniziano a verificarsi in città: un killer inizia a prendere di mira alcuni allievi della scuola che nascondono segreti orrendi — come il quarterback omofobo che viene ucciso per primo, ironia della sorte, nella cabina armadio di casa sua. La sua particolarità è la maschera che indossa: una riproduzione del volto della vittima, a sottolineare l’ipocrisia di nascondersi dietro lo status per fare del male a qualcuno. Insomma, l’eco della callout culture risuona e si trasforma in qualcosa di letale… solo che prende di mira chi fa del male ad altri. Intanto, nel caos, Makani dovrà tenere ben riposti i suoi segreti: un passato tragico e una relazione atipica.

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L’apparenza delle cose: elegia funebre fuori dal tempo

La campagna è inquietante per definizione. Le piccole comunità che sorgono nel nulla sono legate da segreti che tutti conoscono, ma che per istinto di autoconoservazione cercano di ignorare finché non emergono dalla terra (o dai muri), mostrandosi nel loro orrore. Forse sono solo i più giovani ad essere risparmiati, perché quando certe cose avvengono non sono grandi abbastanza da capirle. È questa l’atmosfera che si respira in L’apparenza delle cose, diretto da Shari Springer Berman e Robert Pulcini e basato sull’omonimo romanzo di Elizabeth Brundage. È la storia di Catherine (Amanda Seyfried), restauratrice d’arte affetta da un disturbo alimentare che insieme al marito George (James Norton) si trasferisce in un paesino remoto dello stato di New York, lontana dal comfort della casa di Manhattan. Il trasferimento pesa sulla figlia Franny, che viene tormentata da incubi. Quasi segregata in casa, Catherine inizia ad avvertire delle presenze che iniziano a guidarla verso i misteri della casa. Il film non è soltanto una ghost story a tinte gotiche ambientata negli anni ’80 – non quelli di Stranger Things (nonostante nel cast ci sia Natalia Dyer) dove tutti sono vestiti miracolosamente bene e sembrano usciti da un catalogo di moda, ma quelli delle comunicazioni lente, dell’isolamento e dell’omofobia – ma una riflessione sulle dinamiche di potere all’interno di una coppia, sulla solitudine a cui le donne vengono costrette quando non hanno attorno una comunità che le supporti pienamente, e sulla tendenza ad insabbiare le cose pregando che riemergano quando ormai chi le ha sepolte è passato a miglior vita. E spesso non sono “cose” ad essere insabbiate, ma storie, persone che non hanno potuto difendersi o non ne hanno avuto la possibilità.

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A Classic Horror Story: L’orrore ai tempi della citazione

In un’epoca in cui la scelta è così ampia da mettere in difficoltà lo spettatore, è quasi impossibile destreggiarsi tra le opinioni attorno ad un genere come l’horror, da sempre controverso e a vari livelli di connessione con le problematiche sociali del tempo. C’è l’horror di King che, ad esempio, spazia dalle paure ancestrali a quelle comuni più assurde (come ad esempio, cosa accadrebbe se una necessità come una connessione ad internet o un cellulare diventassero i nostri peggiori nemici); c’è l’horror indipendente che crea elaborate metafore per spauracchi non ancora pienamente inquadrati dalla società – come le sette o gli stigmi attorno alla sessualità, la paura delle malattie sessualmente trasmissibili o l’idea che il sesso ti renda in qualche modo “marchiato”. L’horror commerciale ha una funzione più simile a quella della fiaba, con concetti più o meno affascinanti esplorati in modo lineare. E poi c’è l’horror italiano, che nella mente dei cultori sembra fermarsi agli anni ’70, massimo ’80, con i mostri sacri come Fulci, Bava e Dario Argento. Tutto ciò che è venuto dopo è merda fumante, a quanto pare.

Un’etichetta del genere è stata appiccicata anche al film Netflix “A classic horror story”, di Roberto De Feo e Paolo Strippoli, insigniti del premio alla Miglior regia al Taormina Film Fest. Il film pesca nelle leggende italiane, sana abitudine che si sta diffondendo tra i registi ormai stanchi di pescare a casaccio dall’Art Goetia o di inventarsi amici immaginari maligni per bambini con problemi, e precisamente dalla storia di Osso, Mastrosso e Carcagnosso. Secondo la leggenda, queste tre creature avrebbero dato origine alle maggiori organizzazioni criminali in Italia, con contorno di sacrifici umani per placarne la sete.

La storia ruota intorno a cinque persone che usufruiscono di un servizio di carpooling per un viaggio da Nord a Sud. Alla guida Fabrizio, ragazzo calabrese appassionato di cinema, che accompagna una giovane coppia di turisti, un medico infastidito dalla voglia di Fabrizio di documentare tutto e infine Elisa, che sta andando ad abortire. Dopo un misterioso incidente, i ragazzi precipiteranno in un incubo che sembra scritto secondo gli stilemi classici dell’horror.

Forse un po’ troppi stilemi.

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Sailor Moon: Eternal. Nostalgia canaglia.

A distanza di quasi trent’anni, la stessa generazione che ha guardato i primi episodi (e le prime repliche) di Sailor Moon in serata su Canale 5 ha oggi la possibilità di seguire ancora le storie della bella guerriera che veste alla marinara direttamente dallo schermo di un cellulare o di un tablet. Sailor Moon: Eternal è il seguito diretto della serie animata Sailor Moon Crystal, adattamento diretto del manga di Naoko Takeuchi, che diverge dalla serie anni ’90 proprio in virtù della fedeltà al manga – la cui mancanza era stata lamentata dai fan di lunga data.

L’esperimento di Crystal ha riscosso pareri misti nel pubblico, nonostante Sailor Moon continui ad essere un franchise molto amato. Eternal non fa eccezione: uscito in Giappone al cinema in due date invernali, tenendo conto delle restrizioni dovute all’emergenza sanitaria, è stato poi lanciato in distribuzione mondiale tramite un accordo con Netflix, che ha caricato prima e seconda parte come se si trattasse di una miniserie. Un dittico di due ore e quaranta per adattare il quarto arco narrativo del fumetto, quello dedicato alla minaccia del Dead Moon Circus, alla crescita di Chibiusa e alla misteriosa regina Nehellenia, che fa da contraltare oscuro alla regina Serenity del Silver Millennium.

Durante un’eclissi di Sole, Usagi Tsukino e compagne avvertono la presenza di qualcosa di terribile che s’infiltra sulla Terra approfittando dell’oscurità. La vecchia Zirconia, utilizzando come armi il Trio delle Amazzoni e il Quartetto Amazzonico, tenterà di portare scompiglio all’interno del gruppo delle guerriere Sailor invadendo i loro sogni. Nel frattempo, un misterioso personaggio di nome Helios cercherà di guidare Usagi e Chibiusa verso una via d’uscita.

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The Mitchells vs The Machines: Alexa, play “Altrimenti ci arrabbiamo”

Prendi una famiglia non proprio disfunzionale ma neanche da spot pubblicitario. Prendi un papà boomer stramboide che, come anche gli orologi rotti, ha ragione due volte al giorno, una madre che cerca di non farsi venire un esaurimento nervoso guardando i perfettissimi vicini influencer, una figlia maggiore queer sulla soglia della vita universitaria e un figlio minore dall’età più o meno indefinibile con un’iperfissazione per i dinosauri. Miscela tutto nella cornice di una robo-apocalisse scatenata senza il minimo preavviso da PAL (Cortana doppiata da Olivia Colman, in buona sostanza) e ottieni il coloratissimo cocktail che è The Mitchells vs The Machines. Firmato da Mike Rianda e Jeff Rowe – entrambi alla regia e sceneggiatura – e realizzato dal team vincente del film premio Oscar Into the Spiderverse, il film segue la storia dal punto di vista di Katie Mitchell, il cui punto di vista è profondamente legato ad un certo tipo di cinematografia: Katie infatti è un’eccentrica aspirante regista, fresca di accettazione in una scuola di cinema della California; questo significa che dovrà lasciare la sua casa in Michigan, la sua famiglia e le sue abitudini.

Katie non sembra particolarmente avversa all’idea, essendo il tipo di ragazza che non si è mai sentita parte del gruppo, com’è tipico di chi pensa fuori dagli schemi anche solo di poco nel contesto di un paesino. Dopo un brutto litigio col padre la sera prima della partenza per l’università, il signor Mitchell deciderà di cercare di riparare il rapporto con la figlia prima di lasciarla volare a suo modo – con un lungo viaggio in automobile dal Michigan alla California.

Cosa potrà mai andare storto?

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Volevo nascondermi: comunicare il mondo, quando il mondo non ascolta

I film che raccontano le vite degli artisti, come in generale quelli che raccontano vite di cui si conoscono i dettagli o meno, rischiano spesso di impelagarsi nella funzionalità della narrazione, creando personaggi che si muovono da un punto A ad un punto B che pur facendo maggiormente breccia nel cuore dello spettatore non sono davvero corrispondenti alle loro realtà. Con l’artista Antonio Ligabue non sarebbe stato possibile in ogni caso, proprio perché si tratta di un artista neurodivergente, affetto da nevrosi che impediscono di crearvi attorno una narrazione lineare. Eppure, Volevo nascondermi riesce a creare non soltanto una grande empatia con la figura di un artista che ha raccontato un mondo interiore prezioso e sostanzialmente inedito, ma a raccontare attraverso dei fotogrammi di vita il distacco tra chi veniva messo ai margini della società e le figure che successivamente hanno deciso di capitalizzare sulla sua esistenza.

Volevo nascondermi narra la vita di Antonio Ligabue sin dall’infanzia travagliata vissuta in Svizzera, con in più anche la difficoltà della barriera linguistica oltre che quella legata alla neurodivergenza dello stesso Ligabue, e agli infiniti ricoveri tra una struttura e l’altra, con brevi interruzioni solo per le mostre o le esposizioni in atelier. A quel punto, è l’arte a diventare strumento di comunicazione per Ligabue, che trova così un attaccamento alla vita nell’unico mezzo di comunicazione a sua disposizione.

Il film è stato premiato con sette David di Donatello: Miglior film e Miglior regia, Miglior attore protagonista ad Elio Germano, Miglior autore della fotografia, Miglior suono, Miglior scenografo e Miglior acconciatore.

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