Mary e il fiore della strega: lo Studio Ponoc in bilico tra vecchio e nuovo

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Non tutti i film possono essere Your Name, come ho già detto in precedenza, ma che un film d’animazione giapponese porti a casa la seconda posizione in top ten nel suo weekend d’apertura fa sempre piacere. Presentato in anteprima nazionale al Comicon il 1° maggio, Mary e il fiore della strega approda al cinema per una settimana, in un periodo tutto sommato tranquillo per le major, consentendo così un’affluenza discreta per un genere ancora tenuto in una nicchia che ha smesso di aver senso di esistere almeno dai tempi in cui le visualizzazioni dell’ultimo episodio di One Punch Man fecero crashare i server della piattaforma italiana VVVVID. Il film è targato Studio Ponoc, fondato da Hiromasa Yonebayashi, figura di spicco dello studio Ghibli, che ne ha ricevuto (o si è fatto carico, l’opinione generale è ancora discordante) il testimone.

Mary e il fiore della strega è una storia semplice, per ragazzi: liberamente tratto dal romanzo  La piccola scopa, di Mary Steward, il film segue le vicende di Mary, ragazzina di circa dieci anni che trascorre le sue giornate ad annoiarsi a morte in un villaggio di campagna di una nazione anglofona non meglio specificata in attesa dell’inizio della scuola, complice il suo essere circondata da soli adulti; un giorno, durante una gita nel bosco, Mary s’imbatte in un fiore luminoso di colore blu, che le dona dei poteri che le consentono di accedere a un universo fantastico a cavallo di una scopa. Mary si ritrova così in una scuola di magia dall’architettura bizzarra, accolta dalla preside che la scambia per una matricola particolarmente promettente a causa dei suoi capelli rossi, del gatto nero che la accompagna e delle sue precoci capacità magiche – dovute però al contatto con fiore, e soprattutto non permanenti. Curiosando nell’ufficio della preside, Mary s’imbatte in un grimorio chiamato ‘Quintessenza della magia’, che diverrà poi un punto focale nella trama. Il mondo in cui la protagonista viene catapultata è una gioia per gli occhi: attingendo un po’ sia all’immaginario Ghibli (ricordiamo tra i riferimenti l’imponenza di Laputa, la fortezza celeste del film omonimo, o lo stile tutto steampunk de Il Castello Errante di Howl), che ad alcuni occidentali (primo fra tutti quello di Harry Potter) o ancora ad altra animazione giapponese recente (vedasi la magnifica scuola di Little Witch Academia dello studio Trigger, nato da una certa cellula della Gainax) riesce a creare un caleidoscopio di colori brillanti, mescolando fondali tradizionali ad animazioni moderne e fluide.

La sequenza di apertura lascia a bocca aperta: un inseguimento magico in piena regola, con una ragazza dai capelli rossi braccata da una varietà spropositata di strane creature – da certi strani uccelli che ricordano un po’ degli pterodattili e dei golem simili a quelli visti in Laputa – per portare in salvo il fiore che poi sarà al centro della storia; la ragazza, però, precipita in una foresta. Quando cade al suolo, il contatto del fiore col terreno fa sì che la foresta diventi rigogliosa – e potremmo citare Nausicaa o Mononoke (a quest’ultimo Yonebayashi stesso ha lavorato).

Che sia un film estremamente derivativo, quasi un omaggio alla vecchia Ghibli che ha deciso di fare un passo indietro rispetto al moderno mondo dell’animazione (criticatissimo da Miyazaki, anche se in forme meno estreme di quelle volute da un certo meme), è lapalissiano e penso anche voluto. Che non sia un’operazione innovativa o coraggiosa pure mi pare chiaro, ma su questo Yonebayashi stesso ha detto : per ora, si sono accontentati di fare un film secondo i crismi e i canoni ereditati dalla Ghibli, senza pretendere di lanciarsi in una sperimentazione che per uno studio letteralmente neonato può essere un rischio troppo alto. Si rimprovera a Yonebayashi di aver fatto un passo indietro dal punto di vista creativo rispetto a Quando c’era Marnie, il film “meno Ghibli” di tutti, e ad Arrietty, sempre diretto da lui; il punto è che di un film bisogna anche valutare le intenzioni. Poiché è letteralmente il primo film del “dopo Miyazaki”, e parliamo comunque di un regista che sinora ha diretto solo adattamenti – quindi ha avuto un materiale da tener presente nella messa in scena artistica, teniamolo a mente – esiste una buona probabilità che si sia concentrato sul voler omaggiare i suoi mentori, tant’è che proprio in questi giorni è uscito il trailer di un nuovo progetto dello Studio Ponoc che sembra voler spaziare molto più di quanto abbia fatto Mary e il fiore della strega.

ATTENZIONE: Il testo a seguire contiene SPOILER

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Tuo, Simon: le gioie e i dolori dell’essere normali

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Questo mese del Pride, anche se forse meno di due anni fa coi fatti di Orlando, si è preannunciato difficile sin dall’inizio. Tuttavia, non si perdono le speranze: dal 31 maggio è presente nelle sale italiane un film curioso, Love, Simon (portato in Italia col titolo di Tuo, Simon), che una fetta dell’internet attendeva con una certa urgenza; il resto, purtroppo, non aveva idea di cosa fosse o l’ha saputo soltanto di recente. Tratto dal romanzo young adult Simon vs. the Homo Sapiens Agenda, tradotto con Non so chi sei, ma io sono qui; traduzione forse un po’ più drammatica del necessario, ma che incarna perfettamente lo spirito del giovane protagonista, dalla penna dell’emergente Becky Albertalli – un titolo ben riuscito e ben pensato che sicuramente attirerebbe l’attenzione dei visitatori di una libreria. Le polemiche sull’eterosessualità dell’autrice le lascerei a certi meandri bellicosi di certi siti blu; ciò che interessa davvero è che iniziare il mese del Pride – che per definizione è celebrazione ma è anche memoria storica e ricordarsi che dentro e fuori dalla comunità non sempre ci si sente a casa – con un film come Love, Simon è una ventata d’aria fresca di cui un po’ tutti avevamo bisogno.

La premessa è abbastanza semplice: Simon è un diciassettenne gay che non riesce ad uscire allo scoperto; un giorno, inizia una corrispondenza con un altro studente gay della sua scuola essendo rimasto colpito da un suo messaggio anonimo (salvo che per una mail non riconducibile ad una persona in particolare) lasciato su una piattaforma informatica ad esclusivo appannaggio degli studenti. Il tono non è quello di una grande storia impegnata o drammatica – insomma, non è Moonlight e non è Kill All Your Darlings. E sapete che c’è? Meno male.

Meno male che non è così, perché la normalizzazione dei temi LGBT passa anche per commedie leggere – ma mai stupide – infarcite di cliché e personaggi imbarazzanti (tipo il vicepreside estremamente giovanile che racconta dei suoi buchi nell’acqua su Tinder con falsa nonchalance), per le risate e per i momenti toccanti. E per numeri musicali anni ’80, sui quali tornerò dopo.

Il film è lineare, non è pieno di sottotrame complesse difficili da chiudere, i “colpi di scena” sono telefonati fin dal primo quarto del film ma ciononostante consiglierei cento, mille volte di spendere i soldi del biglietto, solo per provare quello che ho provato io: un senso di pace assoluta in una rappresentazione così normale e quotidiana di qualcosa che è normale e quotidiano. C’è chi ha dibattuto sulla poca credibilità della presenza soverchiante della cultura nerd in questo film, ma è una critica facilmente smontabile: evidentemente, fa parte della realtà dell’autrice. Sul muro della camera di Simon (una perfetta stanza da letto americana in quello che fino al 2015 avremmo chiamato “stile Tumblr”) c’è lo stemma di Tassorosso, una casata di Harry Potter – e va bene così, milioni di ragazzi ce l’hanno, non è né irrealistico né ridondante.

Love, Simon va guardato perché è la storia di tutti. Certo, c’è da dire che a lui è andata meglio che ad altri, ma al di là di un sentimento di comprensibile invidia per la relativa semplicità del suo contesto, forse mostrare su schermo positività invece che lotte, urla e fughe da genitori emotivamente morti e abusi di ogni tipo può far bene sia ai ragazzi che alle famiglie.

ATTENZIONE: Il testo a seguire contiene SPOILER.

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La truffa dei Logan: tamarri sì, ma con stile

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Al colpo di coda della prima settimana di sala, La truffa dei Logan riceve il plauso (non unanime) della critica, che celebra così il ritorno al grande schermo di Steven Soderbergh. Regista consapevole di ciò che può e non può fare, decide di puntare tutto sul suo cavallo di battaglia, utilizzando anche attori con cui ha già dimestichezza (Channing Tatum, protagonista di Magic Mike), con un twist: alle atmosfere lussuose e ai completi sartoriali della sua celeberrima Trilogia Ocean’s, Soderbergh contrappone la West Virginia, le corse NASCAR e un manipolo di redneck e cockney scemi che, arrivati ai titoli di coda, ti chiedi effettivamente come abbiano fatto a concepire un piano come quello che si svela su schermo per tutto il minutaggio.

Quello che Soderbergh presenta al pubblico è un heist movie classico, che già dal trailer – ritmato e accattivante come si rivela poi essere il film, con dei tocchi pop (e country) che non sono inseriti per una pura questione scenica ma che in un certo momento acquistano anche una determinata rilevanza di trama – si prospetta essere una bella esperienza. Il mondo in cui lo spettatore viene catapultato è fatto di meccanici, stazioni di servizio old-fashioned, insospettabili parrucchiere assi del volante e bambine costrette a fare le reginette di bellezza – come in certe trasmissioni abominevoli di TLC o Real Time. Jimmy Logan (Channing Tatum), in particolare, è un padre di famiglia divorziato che ha promesso soprattutto a sé stesso di non ritentare mai più nulla di criminale, anche per dare il buon esempio a una figlia che a causa dell’affidamento quasi esclusivo alla ex moglie vive in un ambiente decisamente poco idoneo, insieme a due fratellastri che guardano film violenti (li tengono buoni, dice il nuovo marito della ex) e dicono già troppe parolacce. La perdita del posto di lavoro come operaio a causa di una zoppia non invalidante ma non dichiarata lo porterà a rivolgersi al fratello Clyde (Adam Driver), un barman veterano di guerra con un braccio solo, per rapinare le casse della pista dove si svolgerà la Coca Cola 600. Il piano originale, in realtà, è quello di rapinare la pista durante una corsa meno impegnativa, ma la chiusura in anticipo dei lavori stradali di cui lo stesso Jimmy si è occupato prima del licenziamento porterà la banda Logan a misurarsi con un colpo forse troppo più grande di loro – ma potranno contare sull’esperto di scasso Joe Bang (un Daniel Craig insolito ma assolutamente efficace) e sui suoi cafonissimi e idiotissimi fratelli, a cui Jimmy e Clyde dovranno fornire una goffa “motivazione morale” per convincerli a partecipare al colpo.

Come in ogni film di Soderbergh, lo spettatore sa già che la banda riuscirà nel suo intento – ma ciò che interessa davvero è il come; ed è il come ad essere sorprendente in questo grande ritorno di fiamma.

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Dogman, ovvero l’inutilità del male

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Fresco del premio speciale Palm Dog e della Palma d’oro al miglior attore per il protagonista Marcello Fonte al Festival di Cannes, Dogman riesce a tener testa persino ad un gigante come Deadpool classificandosi al secondo posto dopo questo nel suo weekend d’apertura – pur con uno stacco netto. Garrone riesce ancora una volta a dare alla realtà una certa dimensione sinistra e angosciante, complice anche la crudezza del fatto di cronaca a cui si è ispirato: si tratta del delitto del Canaro della Magliana, risalente al 1988, che vede protagonista un toelettatore di cani e la sua vendetta nei confronti di un piccolo delinquente del posto da cui subiva angherie; l’omicidio è passato alla storia contemporanea come uno dei più cruenti in assoluto – anche se parte della ricostruzione si rivelò inesatta.

Parlare di fatti di cronaca nell’arte non è semplice. Vuoi per la recentissima paura dilagante di glorificare involontariamente il male, vuoi perché è lecito chiedersi quanto sia giusto ed etico prendere storie di persone che fanno attivamente del male, situazioni in cui si è sparso del sangue vero, come base per un racconto di pura fiction. Garrone però scioglie questo nodo con eleganza: non porta in scena Pietro De Negri, il Canaro originale, un uomo preda di un delirio da cocaina e affetto da un probabile disturbo paranoide, bensì Marcello (omonimo dell’attore che lo interpreta), un uomo gentile che annega lentamente in un pantano da cui non si rialzerà mai. Di Marcello, Garrone sceglie di mostrare al pubblico prima di tutto una tenerezza e una goffaggine quasi infantili che emergono tutte dal suo sorriso storto e dalla voce “da cartone animato”, con cui nella prima scena apostrofa bonariamente un pitbull per poterlo lavare.

Marcello è un uomo palesemente buono, che nella vita reale ci starebbe anche simpatico e gli affideremmo volentieri il nostro cucciolo: lo si vede non soltanto dalla dolcezza assoluta con cui tratta certi bestioni che a chiunque altro farebbero paura, ma anche da quanto sia benvoluto nel quartiere (che ha una somiglianza inquietante con l’idroscalo di Ostia) e dall’amore assoluto che nutre per la figlia, una bambina pura tanto quanto ci appare lui. Tuttavia, la paura è capace di far compiere anche a persone buone azioni riprovevoli; per tenere a bada il piccolo delinquente Simone, ex pugile col cervello martoriato dalla cocaina, Marcello procura le dosi per tenerlo buono come si farebbe con un cane. In un crescendo di violenza, la sudditanza psicologica nei confronti di quest’uomo porterà Marcello a fare una scelta errata e a un’esasperazione tale da avvicinarlo – ma mai permettergli di sovrapporsi – al Canaro vero.

Ed è qui che Garrone appone il suo sigillo: alla violenza martellante, esagerata e barocca del crimine reale oppone qualcosa di più sottile, oserei dire di più sobrio e maggiormente concentrato sulla psiche di Marcello e sul linguaggio del corpo dei due soggetti – del quale parlerò a breve. Se ci si aspetta che Garrone riporti la versione dei fatti così come scritta sugli atti processuali e sui giornali, si rimarrà delusi – come si potrebbe rimaner delusi da Primo amore, angosciante retelling della storia del cacciatore di anoressiche come pure da L’imbalsamatore, basato sulla morbosa vicenda del nano di Termini. Per Garrone la realtà è un canovaccio, un mezzo per consentirgli di parlare di quei sentimenti da cui fuggiamo e che releghiamo costantemente ad una dimensione “altra” da noi, perché ci fa paura l’idea di capire e riuscire a relazionarsi con delle sensazioni perverse come quelle mostrate su schermo; ed è anche questa la funzione di un film, in fondo.

ATTENZIONE: Il testo a seguire contiene SPOILER

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