C’è qualcuno in casa tua: la callout culture, quella vera, uccide

In principio furono Carpenter e Craven, fu il genere home invasion, ma soprattutto fu la saga di Scream negli anni ’90, che una fetta statisticamente rilevante di pubblico ricorda per la versione parodistica in Scary Movie oltre che per l’originale. C’è qualcuno in casa tua è un mix sperimentale di tutto questo: Patrick Brice (Creep) adatta l’omonimo romanzo del 2017 di Stephanie Perkins e segue le vicende di Makani Young, ragazza hawaiiana trapiantata a casa della nonna in una cittadina nel cuore del Nebraska, uno di quei paesotti con una sola scuola superiore circondati da quei campi di mais perfetti per un inseguimento drammatico alla fine di un film horror, e le villette poste a centinaia di metri, se non qualche chilometro l’una dall’altra perché negli Stati Uniti non c’è un concetto di comunità a meno che non si parli di vicinato o di quartieri, dai quali comunque ci si muove solo in auto perché il massimo del trasporto pubblico esistente è lo scuolabus sul quale dozzine di adolescenti si riversano senza particolare voglia di vivere.

A cavallo del diploma, strani eventi iniziano a verificarsi in città: un killer inizia a prendere di mira alcuni allievi della scuola che nascondono segreti orrendi — come il quarterback omofobo che viene ucciso per primo, ironia della sorte, nella cabina armadio di casa sua. La sua particolarità è la maschera che indossa: una riproduzione del volto della vittima, a sottolineare l’ipocrisia di nascondersi dietro lo status per fare del male a qualcuno. Insomma, l’eco della callout culture risuona e si trasforma in qualcosa di letale… solo che prende di mira chi fa del male ad altri. Intanto, nel caos, Makani dovrà tenere ben riposti i suoi segreti: un passato tragico e una relazione atipica.

ATTENZIONE: Il testo a seguire contiene SPOILER

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L’apparenza delle cose: elegia funebre fuori dal tempo

La campagna è inquietante per definizione. Le piccole comunità che sorgono nel nulla sono legate da segreti che tutti conoscono, ma che per istinto di autoconoservazione cercano di ignorare finché non emergono dalla terra (o dai muri), mostrandosi nel loro orrore. Forse sono solo i più giovani ad essere risparmiati, perché quando certe cose avvengono non sono grandi abbastanza da capirle. È questa l’atmosfera che si respira in L’apparenza delle cose, diretto da Shari Springer Berman e Robert Pulcini e basato sull’omonimo romanzo di Elizabeth Brundage. È la storia di Catherine (Amanda Seyfried), restauratrice d’arte affetta da un disturbo alimentare che insieme al marito George (James Norton) si trasferisce in un paesino remoto dello stato di New York, lontana dal comfort della casa di Manhattan. Il trasferimento pesa sulla figlia Franny, che viene tormentata da incubi. Quasi segregata in casa, Catherine inizia ad avvertire delle presenze che iniziano a guidarla verso i misteri della casa. Il film non è soltanto una ghost story a tinte gotiche ambientata negli anni ’80 – non quelli di Stranger Things (nonostante nel cast ci sia Natalia Dyer) dove tutti sono vestiti miracolosamente bene e sembrano usciti da un catalogo di moda, ma quelli delle comunicazioni lente, dell’isolamento e dell’omofobia – ma una riflessione sulle dinamiche di potere all’interno di una coppia, sulla solitudine a cui le donne vengono costrette quando non hanno attorno una comunità che le supporti pienamente, e sulla tendenza ad insabbiare le cose pregando che riemergano quando ormai chi le ha sepolte è passato a miglior vita. E spesso non sono “cose” ad essere insabbiate, ma storie, persone che non hanno potuto difendersi o non ne hanno avuto la possibilità.

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A Classic Horror Story: L’orrore ai tempi della citazione

In un’epoca in cui la scelta è così ampia da mettere in difficoltà lo spettatore, è quasi impossibile destreggiarsi tra le opinioni attorno ad un genere come l’horror, da sempre controverso e a vari livelli di connessione con le problematiche sociali del tempo. C’è l’horror di King che, ad esempio, spazia dalle paure ancestrali a quelle comuni più assurde (come ad esempio, cosa accadrebbe se una necessità come una connessione ad internet o un cellulare diventassero i nostri peggiori nemici); c’è l’horror indipendente che crea elaborate metafore per spauracchi non ancora pienamente inquadrati dalla società – come le sette o gli stigmi attorno alla sessualità, la paura delle malattie sessualmente trasmissibili o l’idea che il sesso ti renda in qualche modo “marchiato”. L’horror commerciale ha una funzione più simile a quella della fiaba, con concetti più o meno affascinanti esplorati in modo lineare. E poi c’è l’horror italiano, che nella mente dei cultori sembra fermarsi agli anni ’70, massimo ’80, con i mostri sacri come Fulci, Bava e Dario Argento. Tutto ciò che è venuto dopo è merda fumante, a quanto pare.

Un’etichetta del genere è stata appiccicata anche al film Netflix “A classic horror story”, di Roberto De Feo e Paolo Strippoli, insigniti del premio alla Miglior regia al Taormina Film Fest. Il film pesca nelle leggende italiane, sana abitudine che si sta diffondendo tra i registi ormai stanchi di pescare a casaccio dall’Art Goetia o di inventarsi amici immaginari maligni per bambini con problemi, e precisamente dalla storia di Osso, Mastrosso e Carcagnosso. Secondo la leggenda, queste tre creature avrebbero dato origine alle maggiori organizzazioni criminali in Italia, con contorno di sacrifici umani per placarne la sete.

La storia ruota intorno a cinque persone che usufruiscono di un servizio di carpooling per un viaggio da Nord a Sud. Alla guida Fabrizio, ragazzo calabrese appassionato di cinema, che accompagna una giovane coppia di turisti, un medico infastidito dalla voglia di Fabrizio di documentare tutto e infine Elisa, che sta andando ad abortire. Dopo un misterioso incidente, i ragazzi precipiteranno in un incubo che sembra scritto secondo gli stilemi classici dell’horror.

Forse un po’ troppi stilemi.

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