#ThrowbackTime Your Name: un campione d’incassi che ha ancora qualcosa da dire

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C’è stato un periodo in cui non si parlava d’altro. Ogni pagina di Facebook che si occupa di animazione giapponese, in qualche modo si è ritrovata a parlarne; con incassi che in Italia hanno superato il mezzo milione e ben cinque repliche nelle sale NexoDigital, Your Name si conquista di diritto un posto dignitoso nella storia del cinema d’animazione.

Quella di Your Name è una storia di incontri come da copione per il regista Makoto Shinkai; il film segue la vicenda del curioso scambio di corpi tra Mitsuha Miyamizu, un’adolescente cresciuta in un villaggio tra le montagne giapponesi tra tradizione e monotonia, e Taki Tachibana, un ragazzo di Tokyo che si destreggia tra studio e lavoro. I due si ritrovano a vivere l’uno la vita dell’altro, destando perplessità fra gli amici, e per comunicare fra loro si lasciano dei messaggi che leggono una volta tornati nei propri corpi; gli scambi avvengono per caso, ma sempre più di frequente, e tra i due inizia a nascere una complicità che solo il vestire letteralmente i panni dell’altro può dare. Per questo motivo, i due decidono di incontrarsi, ma Taki non si presenta all’appuntamento e Mitsuha è costretta a tornare a casa mortificata (ma c’è un motivo).

I due sono inoltre uniti da un fenomeno astronomico straordinario: una cometa che passa vicinissima alla terra, durante un festival a cui Mitsuha partecipa. Dopo quel momento, però, Mitsuha scompare completamente dalla vita di Taki.

Ciò che colpisce maggiormente del film, al di là della trama che può essere semplice, può non piacere, può presentare delle incongruenze che possono rendere il film meno godibile, è l’atmosfera che Shinkai riesce a creare in ogni pellicola. Questo è particolarmente chiaro in un altro suo film, Il Giardino delle Parole, un mediometraggio di 45 minuti che riesce a trasmettere la delicatezza del rapporto tra i due protagonisti anche attraverso i colori tenui degli sfondi e le luci soffuse; al contrario, i colori di Your Name sono brillanti e pieni, vivi come i protagonisti, e il tutto è accompagnato da una colonna sonora d’eccezione – c’è una traccia, in particolare, Sparkle, la cui durata apparentemente insostenibile (9 minuti) diventa del tutto impercettibile per la maniera magistrale in cui si fonde con la scena. Per Your Name, Shinkai ha scelto di affidare la colonna sonora alla band Radwimps, una band rock nata nel 2001 che riesce a inquadrare con precisione il mood che il regista vuole suggerire, con una rosa di tracce mai monotone (degna di nota anche la sigla d’apertura, disegnata come fosse quella di una serie animata).

Lodevole è tutto il comparto tecnico, ma soprattutto l’utilizzo della tecnica mista: in una scena importante, che orchestrata in qualsiasi altro modo sarebbe risultata pesante ed espositiva, l’utilizzo di una sequenza di key animation (le cosiddette “animazioni di base”) accompagna lo spettatore in un’esperienza che è in tutto e per tutto mistica. I colori vivi uniti all’animazione grezza creano un effetto di straniamento, eppure al contempo aiutano ad immergersi completamente nella scena.

Un altro grandissimo punto a favore è l’utilizzo di paesaggi sterminati per suggerire la distanza, e il fatto di essere minuscoli rispetto all’universo – quella di cui Shinkai parla in Your Name (al contrario di quella in 5cm al secondo, una delle sue primissime opere) è una distanza che però è sormontabile nonostante tutto.

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The Kissing Booth: le amicizie, quelle belle

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Non tutti i film devono essere grandi manifesti di denuncia sociale (e meno male). Kissing Booth è esattamente il tipo di film che si sceglierebbe di guardare per passare una piacevole ora e tre quarti a curarsi solo degli sbattimenti adolescenziali di una coppia di protagonisti con una particolarità: sono nati lo stesso giorno, esattamente alla stessa ora, e sono stati cresciuti sostanzialmente come gemelli al punto da sviluppare un rapporto platonico immutabile. La storia ruota intorno al loro affacciarsi all’adolescenza, ai “tipici” (se così possiamo chiamarli) problemi di quell’età, tra prime cotte e status quo – o semplicemente hanno voluto rifilarci una commedia adolescenziale carina, senza grossi conflitti, da guardare quando non si ha nient’altro da vedere. I due, Elle (Joey King) e Lee (Joel Courtney), seguono da sempre una serie di semplici regole che osservano come fosse il vangelo: essere sempre contenti per i successi del proprio miglior amico (facile), offrire un gelato come offerta di pace definitiva (facile), tenere gli occhi e il cuore lontani dai parenti del bff (difficile). Ed è proprio qui che sta l’inghippo: Elle si innamora di Noah (Jacob Elordi), fratello maggiore, classico ragazzo popolare che fa cadere tutte le ragazze ai propri piedi e cose così – una tipologia abbastanza noiosa, ma che a quanto pare piace – e per tutta la durata del film.

Il quadretto idilliaco delle vite dei due protagonisti viene sconvolto dal fruttuoso progetto del Kissing Booth, un piccolo stand dove paghi per baciare una persona (logiche perverse americane che non ho mai capito), dove Lee ha la fortuna di essere abbordato da una ragazza tanto carina quanto irrilevante per la trama ed Elle viene baciata da (sorpresa sorpresona) nientemeno che Noah! A cui lei è sempre piaciuta perché – rivelazioni shockanti – non gli ha mai sbavato dietro! Evviva!

Se volete fare un gioco alcolico con questo film, regolatevi o potreste finire in coma etilico.

In ogni caso, da lì le cose si complicano e tentano di farsi un pochino più serie, inserendo dei conflitti plausibili in un rapporto altrimenti troppo lineare. Elle e Noah si frequentano in segreto, dando vita a scenette tragicomiche improbabili che però mi hanno fatto genuinamente ridere, fin quando non vengono scoperti da Lee, che fraintende tutto e crede di poter decidere della vita sentimentale di Elle (ma dovrà ricredersi).

Detto così, sembra il delirio di una quindicenne che ha visto High School Musical una volta di troppo. La verità è che è esattamente così: il film è l’adattamento del romanzo omonimo di Beth Reekles, che lo ha effettivamente scritto a 15 anni, nel 2012, facendolo passare prima da Wattpad (che pare essere un buon trampolino di lancio al giorno d’oggi). Non che una quindicenne non possa scrivere altro, o non possa scrivere racconti e romanzi di qualità in rapporto alla sua età, ma è piuttosto comune che una ragazza di quell’età. E non c’è nulla di male, in fondo: il film è una produzione Netflix con un target specifico, non c’è periodo di vedere gli attori (con certe facce che non suggeriscono un QI altissimo) sul palco degli Academy Awards o a Cannes. Anche i teen drama scemi hanno diritto di esistere, e chiunque ha diritto sia di apprezzarli che di demolirli.

A giudicare da quanto scritto potrebbe sembrare che non ci abbia trovato nulla di positivo. Stranamente, non è così.

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Thelma: il potere mortale del desiderio

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In genere, quando cercano di spacciare un film per “il nuovo x” non dico che parto prevenuta, ma mi concedo di restare scettica – e la maggior parte delle volte, anche se il film mi piace, ho ragione. Thelma, thriller norvegese del 2017 per la regia di Joachim Trier, mi è stato venduto per settimane da giornali e siti come “Carrie girato da Ingmar Bergman”, il che da un lato mi ha fortemente incuriosita ma dall’altro mi ha incredibilmente perplessa. Eppure, per una volta, avevano ragione.

Con le dovute premesse, ovviamente.

Carrie e Thelma, a partire dal titolo con il nome della protagonista che torreggia su tutto il resto, rispondo ad esigenze culturali simili ma contestualmente diverse, e soprattutto laddove in Carrie è molto difficile essere d’accordo con le ragioni della madre, in Thelma quantomeno il ragionamento dietro certi comportamenti ha una parvenza di senso.

Sin dalla prima scena, Trier ha voluto porre l’accento sull’isolamento e sulla diversità di Thelma inserendola in campi lunghi immensi, complici i paesaggi scandinavi che ben si prestano alla rappresentazione di questo senso di smarrimento rispetto alla natura; persino quando iniziamo ad avvicinarsi alla sua storia non lo facciamo in maniera classica, ma la telecamera riprende la città dall’alto per poi zoomare pian piano sulla figura di Thelma nella piazza dell’università. La vicenda segue il coming-of-age della protagonista, che attraverso la sua esperienza universitaria pian piano si allontana dall’ambiente familiare, così controllato e soffocante, per avvicinarsi alla propria vera identità – è tanto la scoperta della propria sessualità quanto una presa di consapevolezza del proprio potere, è una storia che parla di desiderio e controllo ma non nella maniera distruttiva che viene mostrata in Carrie.

Come la protagonista di King, Thelma è un’entità delicata, un personaggio estremamente fragile e traumatizzato che fatica a connettersi socialmente con gli altri fin quando non si trova ad avere un contatto con una compagna di corso. Tuttavia, per una ragazza a cui è stato fatto un lavaggio del cervello tipicamente cattolico, l’attrazione ha un retrogusto spiacevole che si manifesta in crisi convulsive e perdita di controllo sul suo potere, o deliranti allucinazioni con protagonisti serpenti che strisciano nel suo letto. La crescente attrazione per la compagna va di pari passo con la progressiva perdita di controllo su un potere che nemmeno lei capisce (perché non le è mai stato dato modo, e vedremo perché) fino in fondo, ma che è legato a doppio filo ai suoi desideri. Inoltre, anche se compaiono decisamente poco su schermo, la presenza dei genitori è opprimente e non fa che accrescere ansie che oltre i 16-17 anni dovrebbero iniziare a scomparire.

Tolta la componente sovrannaturale, Thelma è un film che parla di desiderio, di controllo e della consapevolezza di ciò che si può fare e di chi si è, oltre che dei danni di un’educazione soffocante e repressiva per la gioventù LGBT, che si vede – non a caso – demonizzata per il fatto di deviare da una norma che non ha più senso di esistere. Thelma è la tipica ragazza che non ha mai bevuto o fumato, non perché non le interessi ma perché le è stato insegnato che è intrinsecamente male, neppure per una questione di salute ma per una questione morale che ha fatto il suo tempo. A Thelma viene data la colpa della disabilità fisica della madre, viene controllata come se fosse pericolosa, ma la verità è che Thelma è stata resa pericolosa perché non le è stata data alcuna possibilità di essere sé stessa.

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The Killing of a Sacred Deer: Euripide ai tempi del cinema di nicchia

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Approcciarsi a una pellicola di Yorgos Lanthimos (più noto per The Lobster) significa far pace sin da prima di entrare in sala con le possibili stranezze di cui si sarà testimoni. The Killing of a Sacred Deer, conosciuto in Italia col titolo de Il sacrificio del cervo sacro, Prix du scénario a Cannes 2017, tenta un’operazione azzardata e al contempo affascinante: traslare gli stilemi della tragedia greca in un’ambientazione moderna, tale soltanto per le grandi vetrate in plexiglass degli ospedali e per gli smartphone, o per il momento musicale – Burn di Ellie Goulding, che è ciò che mi ha colpito maggiormente del trailer. Steven Murphy (un ottimo Colin Farrel) è un cardiochirurgo con precedenti di alcolismo che vive in uno stato di apparente serenità una volta superatili, a capo della sua famiglia nucleare: la moglie Anna (Nicole Kidman) e i due figli inquietantemente perfetti (una con la passione del canto, l’altro con la passione del pianoforte). Gli unici elementi fuori posto sono due: il fatto che il medico sembri eccitarsi in particolar modo quando la moglie si finge sotto anestesia, e l’ambiguo rapporto con il giovanissimo Marty (un inquietante Barry Keoghan), che il chirurgo incontra in segreto e che ricopre di attenzioni e regali. Il ragazzo quasi lo perseguita, facendo inizialmente intendere che i due abbiano una qualche relazione romantica, ma la realtà dei fatti va ben oltre qualsiasi volo dell’immaginazione: i doni del dottor Murphy sono come offerte volte a placare un dio adirato, perché Martin sta attuando una vendetta terribile ai danni suoi e della famiglia; poiché il medico è responsabile della morte del padre del ragazzo perché l’aveva operato da ubriaco, Martin decide di maledirlo e lo informa che la sua intera famiglia morirà dopo aver sperimentato sulla propria pelle le tre fasi della malattia del padre (paralisi/digiuno/sangue dagli occhi), se il medico non sceglierà una vittima sacrificale. Murphy crede di avere tutto sotto controllo e che basti essere gentile con questo ragazzino-divinità perché la maledizione si plachi (così come il senso di colpa); tanto più che, inizialmente, l’uomo di scienza fa di tutto pur di non credervi.

Il film ha un’atmosfera inquietante e surreale, e ha il grande pregio di essere completamente atemporale: se fosse stata ambientata negli anni ’50 o nell’Inghilterra vittoriana, lo schema sarebbe rimasto invariato e avrebbe funzionato ugualmente. L’idea di portare dei doni per ammansire un dio-infante (simile al Dioniso adolescente del mito, o a quello delle Baccanti di Euripide). Persino i dialoghi, stringati e anacronistici, nel loro essere quasi esclusivamente aulici – salvo che in un punto di cui discuterò a breve – creano un senso di straniamento nello spettatore, che di certo non sta praticamente mai comodo in poltrona per tutta la durata del film. Il personaggio di Martin tiene le redini della vita di questa famiglia, sino al punto di pretendere di decidere con chi debba stare il dottor Murphy e letteralmente “offrirgli” la madre (un’Alicia Silverstone abbastanza inedita, mai vista in ruoli così sopra le righe) lasciandoli soli durante una cena, come se per espiare dovesse prendere il posto del padre deceduto. In un certo qual senso riesce anche nell’intento: sebbene all’atto pratico non faccia nulla di sbagliato, seduce la figlia maggiore del medico convincendola ad adorarlo e a offrirglisi anche se non la desidera; si potrebbe azzardare che desideri invece il medico, ma sarebbe possibile solo nel caso in cui si tratti di una di quelle situazioni borderline possibili al 90% dei casi solo in contesti di fiction, in cui il desiderio non è che l’altra faccia dell’odio – un odi et amo radicato in un bizzarro complesso di Edipo.

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#ThrowbackTime La La Land: dedicato ai folli e ai sognatori

È stato protagonista di una delle figure più barbine della storia degli Academy Awards. Ha vinto circa 40 premi ad oggi dopo essere stato letteralmente sommerso di nomination, di cui 6 Oscar. Ha dato il via ad una catena di meme in italiano più o meno divertenti.

ThrowbackFriday

Ringraziamo La Parlata Igniorante perché sono ormai due anni che sto ridendo.

La La Land (2016), secondo tentativo sul grande schermo per l’appena trentacinquenne Damien Chazelle, che agli Oscar del 2015 ha già sorpreso tutti con l’intensissimo Whiplash (2014), è una storia che da amante dei musical o ami o detesti visceralmente. Segue le vicende di Mia (Emma Stone), una delle tante ragazze che hanno lasciato gli stati centrali degli USA per vivere a Los Angeles e sperare di infilarsi dentro Hollywood passando dal retro – e questo retro è costituito da provini su provini per ruoli minori, scrittura di sceneggiature che non interessano a nessuno, lavori pagati il minimo sindacale, coinquiline e soprattutto tantissime porte in faccia. Una di queste porte, però, resta inspiegabilmente aperta e Mia ottiene un secondo provino.

Parallelamente, seguiamo la storia di Sebastian (Ryan Gosling), giovane e talentuoso pianista jazz che non riesce ad affermarsi perché si rifiuta di suonare continuamente ed ossessivamente repertori che lo frenano sotto il profilo artistico. Queste due personalità finiscono per incontrarsi ad una festa piuttosto noiosa e da quel momento diventano inseparabili, uniti da un sogno comune.

Il tutto è costellato da omaggi continui ai grandi musical di Hollywood anni ’50 e ’60: i due protagonisti si muovono costantemente in uno scenario come di sogno, quasi sospeso tra la realtà e quella dimensione immaginifica delle pellicole che li hanno fatti sognare – operazione riuscita al punto tale che guardando distrattamente i trailer e alcune clip pensavo non fosse ambientato ai giorni nostri. Chazelle regala al grande pubblico un film estremamente tecnico, come ogni musical che si rispetti: la fotografia è elegante, le inquadrature rendono perfettamente il senso della vastità dei paesaggi in cui i due protagonisti sono immersi e, soprattutto, il regista dimostra una grande onestà intellettuale evitando magheggi nel montaggio che andrebbero a risolvere l’inesperienza di Ryan Gosling ed Emma Stone, che è invece palese nelle (poche, misurate) coreografie che li coinvolgono – ma nel complesso resta comunque gradevole, perché quei movimenti un po’ trattenuti, decisamente lontani dall’essere quelli di ballerini professionisti possono funzionare per intenerire involontariamente lo spettatore, che può identificarsi con la goffaggine tipica di quegli amanti dei musical che si lanciano in imitazioni sfrenate delle coreografie dei loro beniamini. Naturalmente, La La Land è un film estremamente derivativo, la cui forza risiede nel non limitarsi soltanto ad essere ciò: l’atmosfera sognante e colorata alla Grease o alla West Side Story (per citare due degli innumerevoli riferimenti), che rende l’intera pellicola se non un capolavoro almeno una gioia per gli occhi, è calata in un contesto in cui un immaginario così brillante trova poco spazio. È una storia vicina ai giovani d’oggi, soprattutto ai creativi (the fools who dream, come vengono chiamati nel film) che si trovano più in bilico di altri tra ragione e sentimento, laddove la ragione è il barcamenarsi tra mille lavoretti insoddisfacenti e forse anche lontani dalla propria natura, ma che consentono di pagare le bollette, e il sentimento, il continuare a perseguire i propri sogni facendo provini su provini o scrivendo pagine e pagine fitte fitte che marciscono per anni in un computer o in innumerevoli taccuini, o suonando in improbabili cover band proprio come Sebastian per poter un giorno sperare di realizzare il proprio grande sogno. Ed è proprio per questo che il finale lascia pubblico e critica divisi.

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