Con il plauso della critica, il passo d’addio di Daniel Day-Lewis (che ricorderemo per Il Petroliere, sua prima collaborazione con Paul Thomas Anderson) conquista gli Academy Awards con sei nomination e il premio Oscar per i Migliori Costumi. Premio giustificatissimo, d’altronde: Il filo nascosto (Phantom Thread in originale) ci riporta in una Londra postbellica per seguire le vicende di Reynolds Woodcock, stilista d’alta moda che confeziona a mano abiti straordinari per le donne dell’alta borghesia europea, che nella sua vita da scapolo incallito incontra Alma (Vicky Krieps), una cameriera timida e sgraziata che tuttavia si rivelerà un modello assolutamente perfetto per le sue creazioni.
Algido ai limiti dell’inquietante, il ritratto dello stilista che Day-Lewis porta davanti alla cinepresa è tanto chiaro e definito quanto ambiguo e sfuggente: è senz’altro un uomo affascinante e posato, affabile, di belle maniere e tuttavia distaccato, sempre assorto nei propri pensieri (e in dialogo coi propri fantasmi, come apprenderemo) e imprigionato nelle proprie manie; ogni donna che ha accolto in casa come musa ispiratrice, dopo poco, viene ritenuta indegna e mandata via perché troppo banale, troppo poco conforme a quell’idea che Woodcock sembra inseguire smaniosamente. L’idea in questione non viene mai esplicitata nella pellicola: si potrebbe presumere che voglia in qualche modo far rivivere la madre deceduta, per cui ha confezionato la sua prima creazione un assoluto (un abito da sposa, che porta con sé tutta una serie di superstizioni e rituali), ma non sarebbe sufficiente a spiegare le ossessioni che lo possiedono – fra tutte, spicca la pretesa di avere un silenzio quasi tombale a colazione, da lui ritenuta fondamentale; se qualcosa va storto durante la colazione, l’intera giornata rischia di andar sprecata.
Persino dall’ambiente che ha costruito intorno a sé traspare la cura maniacale dei dettagli: le stanze sono d’un bianco accecante, arredate con gusto ma quasi non vissute, quasi fossero anch’esse parte dell’esposizione di Woodcock; persino la camera da letto è cupa, spettrale. Il laboratorio sartoriale, in cui lo staff di Woodcock entra religiosamente in fila indiana, dopo aver salutato compostamente il superiore, assomiglia più ad una sala operatoria: le stoffe vengono maneggiate con la stessa cura che se si stesse trattando un composto instabile, le forbici diventano bisturi che tagliano con precisione millimetrica tessuti pregiati che Woodcock accarezza delicatamente, ma con freddezza, con la camera che indugia sulle sue mani affusolate da artista e sull’espressione tirata, quasi che stesse compiendo uno sforzo erculeo.
Ed è proprio lo sforzo che la perfezione di Reynolds Woodcock richiede – e che Paul Thomas Anderson, sceneggiatore oltre che regista in quest’opera, non nasconde – a far di lui un grande personaggio: il suo non è il fascino senza sforzo del dandy, ma il fatto che ogni gesto sia misurato in maniera maniacale è ben evidente sin dalla prima scena, in cui ci viene mostrato in un atto banale come quello del vestirsi, che esegue come un rituale, osservandosi allo specchio con gli occhi sgranati per cogliere qualsiasi dettaglio fuori posto. Questo perfezionismo non potrebbe essere stato portato in scena con tanta puntualità, se non fosse nato da un connubio di perfezionisti: Daniel-Day Lewis e Paul Thomas Anderson condividono, oltre ad un’affinità che ha già permesso loro di funzionare egregiamente su pellicola, la cura maniacale del dettaglio – ogni tic di Woodcock è studiato, ma mai innaturale, ogni espressione ha il giusto grado di fascino ed è allo stesso tempo in grado di incutere timore, ogni sfumatura è espressa con la giusta delicatezza.
In questo equilibrio patinato, una donna come Alma è un jolly, un’incognita che può allo stesso tempo arricchire la vita di Woodcock quanto essere il seme di un’inevitabile rovina.
ATTENZIONE: Il testo, a seguire, può contenere SPOILER