I’m thinking of ending things: road trip nell’angoscia dell’umanità

I labirinti della mente e la nostalgia del possibile sono i due pilastri del cinema di Charlie Kaufman, da Eternal Sunshine (che ha sceneggiato, con l’assist assurdo dello stile registico di Michel Gondry) a Synecdoche, New York. Sono leitmotiv così profondi da poterli quasi catalogare in un genere a sé. E ci si aspetterebbe qualcosa di già visto in I’m thinking of ending things, l’ultimo lavoro di Kaufman uscito il 4 settembre in streaming su Netflix.

La storia è narrata principalmente dal punto di vista di Lucy (Jessie Buckley), una giovane donna in viaggio con il suo nuovo fidanzato Jake (Jesse Plemons), che la sta portando a conoscere i genitori in un casolare di campagna sperduto. La sensazione generale di malessere e le ansie che popolano il flusso di pensieri di Lucy delineano un quadro fatto di indecisioni: la giovane donna non è sicura della sua relazione, e sente di non poter davvero contare sulle sue percezioni. Intanto, da qualche altra parte in America, in una scuola sperduta c’è un bidello che vaga per i corridoi deserti come un fantasma, ingannando il tempo con delle vecchie commedie romantiche.

Due piani dell’esistenza completamente indipendenti l’uno dall’altro, accompagnati dalla storia sino ad un punto comune. Quale sarà?

ATTENZIONE: Il testo a seguire contiene SPOILER

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Il ladro e il ciabattino: una leggenda a portata di click

Una delle funzioni dell’internet è quella di essere un archivio di storie: storie vere, leggende e storie vere che hanno del leggendario. La storia de Il ladro e il ciabattino rientra sicuramente nell’ultima categoria. Più che della trama del film in sé, si parla molto della sua produzione: detiene il primato come film più longevo in termini di realizzazione. Quella dietro Il ladro e il ciabattino è una storia d’amore e di dedizione, di sogni realizzati e infranti, ma anche di grande amarezza per il regista (e anche sceneggiatore e co-produttore) Richard Williams. Prima di arrivare alla conclusione di questa sua “magnum opus” rimasta quasi del tutto incompiuta, Williams si è distinto per le sue capacità visionarie lavorando per la Disney e per la Warner Bros. e portando a casa ben due Oscar per Chi ha incastrato Roger Rabbit, capolavoro avanguardistico della tecnica mista.

Il seme de Il ladro e il ciabattino venne piantato a metà degli anni ’60, quando Williams stava iniziando a muovere i primi passi nel settore animando corti e pubblicità. L’idea era quella di realizzare un film rivoluzionario, per tecnica e temi: la storia, in un’ambientazione da Mille e una Notte, segue le vicende del ciabattino Tacco, che a causa di un incidente con un ladro muto si ritrova a compiere una missione molto importante al fianco della principessa YumYum, figlia di re Nod.

Tutta la potenza artistica della mente di Williams, più che nella sceneggiatura doveva essere incanalata nell’aspetto grafico del film. L’ambientazione, la “città dorata” dove si svolge l’azione, è stata realizzata secondo geometrie bizzarre che consentono ai personaggi di muoversi nello spazio in modo del tutto inusuale. Persino i movimenti di camera sono estremamente avanzati e fluidi per un film realizzato interamente a mano.

Uno dei maggiori deterrenti per le case di produzione, all’epoca, era proprio la tecnica estremamente ambiziosa adoperata da Williams, che è stato sistematicamente abbandonato, nel tempo, da chiunque entrasse a far parte del progetto. È stato lo showrunner Garrett Gilchrist, dalla metà degli anni 2000 in poi, a lavorare ad un “Recobbled cut” (che non definirà mai “Director’s cut” per rispetto a Williams), ovvero una versione quanto più fedele possibile all’originale, che include anche scene semplicemente “imbastite”.

ATTENZIONE: Il testo a seguire contiene SPOILER

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Kynodontas: la realtà è un affare di famiglia

Una delle maggiori fragilità dell’essere umano sta nel fatto che, nelle fasi decisive della crescita, ha una mente che tende ad assorbire tutto ciò che gli sta intorno. Ad esempio, se si fa ascoltare ad un bambino una voce meccanica che associa definizioni errate alle parole, il bambino non saprà mai che sono tutte menzogne. È quello che accade ai giovanissimi protagonisti di Kynodontas, opera di Yorgos Lanthimos giunta nelle sale italiane ad 11 anni di distanza dalla vittoria a Cannes nella sezione “Un certain regard”. I protagonisti non hanno nome, hanno un’età indefinibile tra i 16 e i 30 anni, e sono cresciuti nella villa di famiglia, lontani da tutto e tutti, perché convinti dai genitori che il mondo al di fuori dei confini del cancello di casa è un posto pericoloso.

Gli unici rapporti sociali che hanno sono quelli familiari, e quello con una singola addetta alla sicurezza scelta appositamente dal padre-padrone per soddisfare le pulsioni sessuali dell’unico figlio maschio. Anche la madre trascorre la maggior parte della vita in casa, complice del padre. Ma un equilibrio così fragile e perverso non è destinato a durare a lungo – dopotutto, il padre ha detto ai ragazzi che saranno pronti a lasciare la casa quando avranno perso il dente canino. E ogni storia di crescita ha il fine di portare i protagonisti a staccarsi dal proprio punto di partenza.

ATTENZIONE: Il testo a seguire contiene SPOILER

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