Toy Story 4: forse l’anima pesa un po’ più di 21 grammi

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Toy Story è una di quelle rare saghe in cui i sequel non solo mantengono alto l’onore del primo film, ma impreziosiscono il mondo dei protagonisti aggiungendo livelli di profondità e significato. Toy Story 2 è forse il miglior sequel mai realizzato dal sodalizio Disney-Pixar; molto è dovuto alla cinefilia spinta di John Lasseter, che in quel frangente ha dato prova di maestria nel parodiare e nello spargere citazioni forse rivolte più a mamma e a papà che ai bambini a cui è effettivamente indirizzato il film. Con il finale di Toy Story 3 sembrava che il cerchio potesse chiudersi definitivamente, con l’addio ad Andy e la nuova vita in casa della piccola Bonnie, ma il team ha trovato quegli elementi lasciati in sospeso per poter creare una storia coerente.

Sotto la guida di Josh Cooley, nome rodato alla Pixar nel settore animazione, qui alla sua seconda regia, il gruppo di giocattoli che abbiamo imparato a conoscere ed amare negli scorsi 25 anni torna a combinarne di ogni quando Bonnie è distratta. L’elemento di novità del film è che Bonnie, al contrario di Andy, è una bambina appena in età scolare – e a quell’età i bambini creano. È proprio la creazione di un giocattolo fatto di spazzatura, il buffo forchetto Forky (doppiato da Luca Laurenti), a scatenare l’effetto domino che porterà il cowboy Woody (qui doppiato da Angelo Maggi, che ha fatto un buon lavoro nel sostituire la buonanima di Frizzi) a mettere in discussione il suo ruolo nella storia.

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Fate/Stay Night: Heaven’s Feel II. Lost Butterfly, letture e riletture dell’orrore

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A ormai quasi due anni dal boato che ha scosso l’auditorium della conferenza Dynit al Lucca Comics del 2017 e dal “mi fate paura” di Cavazzoni, Fate continua ad essere un fenomeno mediatico al punto da conquistarsi un trafiletto su Repubblica Napoli per pubblicizzare il lancio cinematografico di Lost Butterfly, il secondo capitolo animato della route Heaven’s Feel per la regia di Tomonori Sudou.

Il primo film, Presage Flower, aveva mantenuto una discreta popolarità nonostante gli avversari delle major, e la sua presenza su Netflix a partire dal primo gennaio di quest’anno avrebbe dovuto consentire anche a chi si fosse perso l’evento al cinema di febbraio 2018 o non potesse acquistare i bluray di recuperarlo e prepararsi per il secondo. Purtroppo, un cambio di date un po’ infausto (a cavallo con gli esami di maturità e in piena sessione estiva per gli universitari) ha causato un calo dell’affluenza – ed è triste, considerando che non doveva neppure vedersela con una prima Disney-Marvel. Come questo influirà sull’acquisto del terzo e più atteso capitolo, Spring Song, non è dato saperlo, ma Lost Butterfly è un capitolo che si è battuto con onore superando qualitativamente il primo.

Tomonori Sudou ha approfittato della sua immensa passione per Sakura per raccontare con dovizia di particolari uno dei segmenti più oscuri della sua esistenza, aggiungendo anche un tocco personale in linea con l’atmosfera horror della route. La scelta del taglio finale, a mo’ di cliffhanger per chi non fosse un esperto del materiale originale, è il climax più indicato per questa parte di Heaven’s Feel, che accompagna lo spettatore nei dolori di un’eroina relegata a ruoli per lo più marginali nelle route precedenti.

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#ThrowbackTime: Heathers, come (non) sopravvivere al liceo

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Tra i tanti film mitologici per ragazze – talmente tanti da essere diventati un genere a sé – oltre a Mean Girls e Legally blonde spicca un terzo forse più di nicchia, ma non per questo meno apprezzato: Heathers. Conosciuto (relativamente poco) nella sua versione italiana come Schegge di follia, il film è interpretato da una Winona Ryder nemmeno diciottenne che veste i panni di Veronica Sawyer, ex-sfigata che è stata graziata dal gruppo delle reginette della scuola per via della sua abilità nel falsificare qualunque grafia.

Dal film è stata tratta nel 2014 una produzione Broadway che riproduce gli elementi più iconici a partire dalle giacche dai colori sgargianti e dai capelli cotonati, per finire ai riferimenti culturali. Ovviamente, questa presenta delle differenze con il lungometraggio a partire dal fatto che in quest’ultimo Veronica è la quarta Heather sin dall’inizio, mentre il musical ha come momento iniziale quello in cui Veronica le prega di accettarla per essere lasciata in pace dai compagni. Il resto, a parte pochi dettagli (di cui alcuni non irrilevanti) è più o meno identico: Veronica si infatua del nuovo arrivato, Jason “JD” Dean, con cui instaura una connessione istantanea. Il ragazzo ha modi sopra le righe ed è un emarginato esattamente come lo era lei, e intende utilizzare Veronica per portare a compimento un piano omicida con lo scopo di eliminare le persone da lui ritenute ingiuste – per lo più bulli.

Il massacro comincia proprio dal capo delle Heathers, Heather Chandler, che a causa di un incidente accaduto ad una festa vorrebbe relegare di nuovo Veronica ai margini del gruppo dei pari. I due inscenano quindi il suicidio della reginetta della scuola per coprire l’omicidio, dando il via ad un domino delirante in cui verrà coinvolta l’intera scuola.

Il film è stato ricevuto dalla critica e dal pubblico con pareri contrastanti: è senza dubbio una commedia nera, ma contrariamente a quanto possa sembrare non si prende gioco delle lotte degli adolescenti né incita a comportamenti violenti. Il rischio di emulazione che viene vagheggiato per qualsiasi prodotto che abbia del mordente (contestualizzato, come nel caso di Heathers) o che tratti di violenza non è una responsabilità del creativo in sé.

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#ThrowbackTime Superbad: il romanzo di formazione delle teste storte

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Alle volte, i cosiddetti film da guardare a cervello spento restano più impressi di qualsiasi lavoro d’autore. Nel loro essere sostanzialmente uno sclero di registi e sceneggiatori che intendono mettere in scena le minchiate più atroci, hanno un fascino unico e un umorismo contagioso, che sicuramente perde in finezza ma compensa ampiamente con la memorabilità. Questo è particolarmente evidente nella filmografia di Seth Rogen e compagni – che sono arrivati persino agli Oscar con The Disaster Artist – che hanno fatto del cazzeggio una fine arte.

Il mio incontro con Superbad, ora disponibile su Netflix, è stato come tutti gli incontri più belli: casuale. Letteralmente facevo zapping su Sky nell’estate del 2008, probabilmente una mattina, l’ho beccato e ne sono stata completamente rapita.

La storia è abbastanza semplice: Seth (Jonah Hill) ed Evan (Michael Cera), due assolute facce di cazzo all’ultimo anno delle superiori che non sono per niente ispirate agli sceneggiatori Seth Rogen ed Evan Goldberg, vogliono festeggiare la fine della scuola e perdere quanto prima la verginità per smettere di essere ai margini della società. Con loro c’è anche Fogell (Christopher Mintz-Plasse), un nerd secco e occhialuto che sembra essere utile solo come sacco da boxe ma riserverà più sorprese di tutti.

Per riuscire nella missione, i tre si offrono di comprare alcol per la festa di fine anno di Jules (un’insospettabile Emma Stone debuttante), e da lì parte un crescendo di deliri sempre più ai confini con la realtà, ma non per questo meno iconici.

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