Hocus Pocus: tremate, tremate, i ’90 sono tornati

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Di solito, quando si pensa al periodo di Halloween, la seconda cosa che viene in mente dopo le abbuffate di zucca e cioccolato è sicuramente tutta la produzione cinematografica a tema. Per chi non è particolarmente amante degli spargimenti di sangue, esiste un classico sicuramente degno di essere in considerazione: Hocus Pocus, che è a tutti gli effetti un film Disney, ma ha un sapore completamente diverso da qualsiasi produzione di quel periodo.

In primo luogo è bene ricordarne il livello di iconicità: Hocus Pocus vanta la performance più spettacolare di Bette Midler, nei panni della sorella strega maggiore Winifred Sanderson, oltreché di un antesignano di Salem, il gatto parlante della serie Sabrina, vita da strega. Tutto questo, e la direzione di Kenny Ortega in tempi non sospetti – infatti, è meglio noto per la saga di High School Musical e il riuscitissimo seguito di Cheetah Girls.

Il gusto del pop di Ortega è la chiave della riuscita del film, molto più di quanto la trama possa far sospettare. La storia segue le vicende di tre sorelle streghe, le Sanderson, che nel 1693 vengono processate e impiccate a Salem (giustamente), ree di aver privato una bambina della linfa vitale per conservare la propria giovinezza e di aver maledetto il fratello maggiore di questa trasformandolo in un gatto nero – più vari altri crimini di simile natura.

Dopo trecento anni, nel giorno di Halloween (naturalmente), due fratelli molto simili alle vittime delle Sanderson le resuscitano accidentalmente; il film si snoda attorno ai buffi tentativi, sia dei protagonisti sia delle streghe, di vincere prima dell’alba del giorno dopo – limite di tempo che le Sanderson hanno per resuscitare in via definitiva. Solo che le streghe hanno dalla loro parte quest’espressione di Bette Midler e Sarah Jessica Parker che fa la bionda scema.

(non è propriamente un trailer, ma contiene una delle scene che preferisco)

ATTENZIONE: Il testo a seguire contiene SPOILER

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Mirai: il prodotto dell’amore di molti

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Quando vedo registi giapponesi un po’ più di nicchia, ma non per questo sconosciuti, valutati sulla scala Miyazaki mi viene sempre un pochino di tristezza. Al di là dell’inutilità di paragone, in questi confronti tutto ciò che riesco a vedere è il rifiuto implicito di guardare al di là della tradizione e la mancanza di volontà di fare spazio anche ad altro rispetto a ciò che si conosce; questo in particolare mi intristisce quando parliamo di un regista come Mamoru Hosoda, approdato nuovamente nelle sale italiane il 15-16 e 17 ottobre con il nuovissimo film Mirai, che a maggio scorso ha conquistato il plebiscito della giuria a Cannes nella sezione Quinzaine des Réalisateurs. Meglio noto per storie famigliari commoventi come Wolf Children, o per storie di crescita come The Boy and the Beast e La ragazza che saltava nel tempo, Hosoda è uno di quei registi che riesce a mantenere un’identità molto definita senza fare sempre lo stesso film (colpa che invece, con l’enorme eccezione di Your Name, potremmo attribuire a Shinkai), ed è per questo che definirlo l’erede di Miyazaki è riduttivo.

Pur non vantando la profondità di Satoshi Kon, gli scenari fantastici di Hosoda restano impressi, così come la tenerezza dei giovani protagonisti – Hosoda sceglie infatti tutti protagonisti giovani con cui è possibile simpatizzare sia da più piccoli che da adulti. In particolare, Hosoda è particolarmente attento ai dettagli dei paesaggi, sino alla minuzia – ricordiamo in particolare la città di La ragazza che saltava nel tempo e la foresta incontaminata di Wolf Children.

Mirai non fa eccezione: pur concentrandosi per lo più su paesaggi urbani – vastissimi, proprio come li vedrebbe un bambino dell’età del protagonista – la capacità di immersione è impressionante, soprattutto quando si schiude una porta sul fantastico, che si intreccia col reale a partire da un unico punto. La storia del film è abbastanza semplice: Kun, viziatissimo bimbo di quattro anni, deve fare i conti con l’arrivo della nuova sorellina Mirai; inizialmente tenta di andarci d’accordo, ma dato che per forza di cose non può averci davvero un dialogo si spazientisce subito e soffre molto dell’inevitabile mancanza di attenzioni dei genitori, tutti concentrati sulla nuova arrivata – persino il padre, che nella prima infanzia di Kun ben poco ha fatto per prendersi cura del piccolo, si dà da fare con quella goffaggine tenera tipica di chi non è un campione di multitasking.

Kun si ritrova quindi circondato da giocattoli che senza quello che lui percepisce come l’affetto incondizionato del genitore diventano inutili. L’ostilità nei confronti di Mirai cresce sempre di più, finché durante più di una di queste crisi non avvengono fatti straordinari: dapprima il giardino si trasforma nel cortile di un castello, dove Kun incontra un uomo che si fa chiamare “il principe della casa”, e poi la versione adolescente di sua sorella – più tanti altri personaggi importantissimi.

Attraverso questi incontri, Kun dovrà riuscire a trovare un punto di contatto non soltanto con la sorellina, ma soprattutto con la storia della sua famiglia.

ATTENZIONE: Il testo a seguire contiene SPOILER

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Sulla mia pelle: “Quando le scale smetteranno de menacce”

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Alla luce dei nuovi sviluppi, mi è sembrato doveroso affrontare un’opera a cui stavo girando intorno da un po’ – il film documentario Sulla mia pelle, diretto e sceneggiato da Alessio Cremonini, regista classe ’73 alla sua seconda pellicola. Appartenente a quel filone di cinema che romanza la realtà per raccontarla nella maniera più pregnante possibile, alla maniera di Polytechnique (2009) di Denis Villeneuve o de La macchinazione (2015) di David Grieco, il film segue gli ultimi, drammatici sette giorni della vita di Stefano Cucchi, giovane geometra arrestato per detenzione e spaccio; un capo d’accusa come un altro, ma naturalmente il focus è sulla sua morte, avvenuta, si dice, per epilessia.

I referti parlano di epilessia, ma il corpo del ragazzo racconta una storia diversa: l’epilessia non causa ematomi sul volto.

Il film, pur senza mai mostrarla se non sul corpo di Cucchi, vuole denunciare la violenza insensata – confermata proprio nelle ultime 48 ore – ai danni del ragazzo, che per sette interminabili giorni viene isolato, ignorato e maltrattato. Nel processo per direttissima, che si tiene il giorno successivo all’arresto del giovane, sono già presenti i primi segni che potrebbe esserci qualcosa di cui non è semplice passare.

Nella sua ora e quaranta, Sulla mia pelle accompagna lo spettatore, che può soltanto restarsene dall’altro lato dello schermo, più impotente dello stesso Stefano o dei genitori, in una discesa infernale fatta di solitudine e dolore. Gli ambienti angusti delle celle – tutte uguali, eppure ognuna diversa dall’altra – vengono resi ancora più soffocanti dall’illuminazione scarsa, in cui Stefano Cucchi va quasi a diventare parte stessa dell’ambiente, mentre giace stordito su letti diversi, facendo fatica persino a girarsi sul fianco. Sebbene il film mostri soltanto le conseguenze della violenza sul corpo – quello di un Alessandro Borghi (che ricordiamo per quel ruolo un po’ istrionico in Napoli Velata) sbarbato, rasato e smagrito fino all’osso – esse sono inequivocabili: gli ematomi, di un viola impossibile, si estendono giorno per giorno come un parassita che contamina un giardino.

Fatto ancora più spregevole che viene mostrato è l’alienazione completa del ragazzo: gli viene proibito di vedere il proprio avvocato (il che equivale alla privazione di un diritto fondamentale), i genitori vengono respinti tramite cavilli e regole che spuntano ogni qualvolta tentano di bussare alla porta del centro in cui è ricoverato il figlio (anche qui, gravissimo), l’unico contatto umano – al di là degli infermieri che o si sforzano di ignorare la provenienza degli ematomi o lo trattano alla stregua di un rifiuto – deriva da quelle poche parole che riesce a scambiare con altri detenuti. In particolare, del suo ultimo confidente non conosce nemmeno il volto: gli parla girato di spalle, con un filo di voce, riesce a dire solo poche parole.

Dal momento in cui viene arrestato, Stefano Cucchi cessa di essere umano. Per quanto gli si prestino cure mediche di facciata, il fatto che il personale si rifiuti di riconoscere è un’umiliazione tale che lo porta a rifiutare le cure. Per quanto soffra, il fatto che nessuno sia disposto ad ascoltarlo perché ormai marchiato come criminale è un deterrente troppo grande per giurare davanti alla legge (la legge che, per quanto dovesse punire l’effettivo crimine, doveva almeno tutelare la sua umanità) di aver subito determinati abusi – e come lui, milioni di altre vittime tacciono per un semplice (eppure insormontabile) sbilanciamento di potere.

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Venom: casini in casa Marvel

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Il bello e il brutto di vedere un film nel primo giorno di lancio, con solo un mormorio indistinto di pareri provenienti da chi è stato abbastanza fortunato da vedersi l’anteprima in sottofondo, è che non sai che cosa aspettarti. Anzi no, è soprattutto il bello: del film di  Venom non sapevo assolutamente nulla, se non che ha fatto tornare di moda il carbone attivo nelle ricette sponsorizzate su Tasty e che, stando ai trailer, segue quel filone di film più cupi sui supereroi. La storia è un twist originale sulle origini di uno dei cattivi più iconici del franchise di Spider-Man, dal quale si slega completamente per via di simpatiche questioni burocratiche grazie alle quali la Disney-Marvel detiene attualmente i diritti del personaggio di Spider-Man, almeno fino all’uscita del seguito di Homecoming.

Abbiamo imparato, grazie allo Spiderman di Sam Raimi dei primi anni 2000 e poi l’MCU nella sua interezza, a prendere le aspettative di fedeltà al fumetto e a metterle da parte preventivamente per evitare di restare delusi (perché neanche la fedeltà assoluta, se pretendi di adattare 1:1, paga – no, non perdonerò mai Zack Snyder per Watchmen, okay?). Il fatto è che l’assenza di Spiderman, anche in un universo dove si suggerisce che sia Venom stesso il protagonista, mina pesantemente le fondamenta di questo ennesimo tentativo di multiverso in termini di coerenza e credibilità.

Se non altro, Tom Hardy fa il suo onesto lavoro e conferisce al personaggio una personalità con cui lo spettatore può senz’altro simpatizzare.

Procedendo con ordine, la storia di Venom è quella di Eddie Brock, giornalista d’inchiesta dal carattere turbolento che, venuto in possesso di alcune verità scomode sulla Life Foundation, una fondazione che con l’idea di finanziare la ricerca e il progresso tecnologico con particolare attenzione alla possibilità di vita su altri pianeti, perde il lavoro e con esso tutto ciò che è importante per lui. Deciso comunque a scoprire la verità, si ritrova nuovamente a fare i conti con la fondazione e viene a stretto contatto con un’entità aliena che gli stravolgerà l’esistenza.

E penso sia più saggio parlare di tutto il resto sotto l’avvertimento.

ATTENZIONE: Il testo a seguire contiene SPOILER

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