Napoli Velata: Partenope pagana sullo sfondo di un thriller atipico

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Tra i vari, non pensavo mi sarei mai ritrovata a recensire un film di Ozpetek. Non lo amo come regista, il topos narrativo alla base de Le fate ignoranti mi fa prudere le mani a distanza di anni e come tutti i nerd ho avuto anch’io la mia fase di rigetto per il cinema italiano – ampiamente superata grazie a Virzì. Eppure, Napoli Velata mi ha attirato sin dal teaser e sarebbe stato un peccato non dargli una possibilità solo perché non sono una fan sfegatata del regista. La trama è abbastanza fumosa: gli elementi cardine sono l’esoterismo, un delitto e la passione, elemento onnipresente nell’opera di Ozpetek. Il medico legale Adriana (Giovanna Mezzogiorno), durante il rito apotropaico della “figliata dei femminielli”, retaggio squisitamente pagano della Partenope dei riti misterici, incrocia lo sguardo con il misterioso Andrea (un Alessandro Borghi un po’ pesce fuor d’acqua in un contesto così fortemente napoletano) e trascorre con lui una notte di passione rappresentata completamente senza veli sullo schermo per poi lasciarsi con la promessa di rincontrarsi il giorno successivo nella sala segreta del MANN (Museo Archeologico Nazionale di Napoli). Il ragazzo non si presenterà mai all’incontro, e Adriana scoprirà presto il perché, trovando quel corpo che riconoscerebbe ovunque sul proprio tavolo da lavoro poco dopo, con gli occhi cavati in perfetto stile Edgar Allan Poe. Tutto ciò che segue la scoperta è un viaggio mistico e misterico all’interno di una Napoli sconosciuta ai più, la Napoli più strettamente pagana – del resto, già la scena di apertura, col velo che si solleva e il femminiello-sciamano Pasquale (Peppe Barra, icona gay del teatro napoletano) che parla di come la verità vada percepita e non vista ci si cala in un contesto misterico che non ha nulla da invidiare alle antiche feste Delfinie. Con questo mosaico coloratissimo che unisce il razionale al sovrannaturale, l’antico al nuovo e la verità alla visione, Napoli Velata porta a casa ben due statuette ai David di Donatello, tutt’e due tecniche: Miglior fotografia, per gli ampi scorci poetici di Napoli mostrati in tutta la loro magnificenza e per certe inquadrature ben più claustrofobiche collegate soprattutto agli interni e alle scene di ritualità, e Miglior scenografia, per il gusto nell’arredamento degli interni e per l’allestimento dell’antro della Sibilla, figura fondamentale nella pellicola.

ATTENZIONE: Il testo, a seguire, può contenere SPOILER.

Come da titolo, Napoli Velata si basa su un complesso gioco di chiaroscuri e dicotomie in cui la verità – difficile da inquadrare persino nel finale – si nasconde volutamente da qualche parte nel mezzo: e il “doppio” appare sin dall’inizio del film, che si apre con una scena criptica in cui Giovanna Mezzogiorno spara ad un uomo su un pianerottolo. Lo spettatore è portato a pensare che quello sia il marito, e che il film ruoterà intorno al ricostruire questo specifico delitto, ma resterà sorpreso quando poi si scoprirà che la Mezzogiorno che vediamo all’inizio non è Adriana, bensì sua madre, altro elemento cardine che ossessiona la protagonista e sua zia, che ha tutta l’aria della strega saggia depositaria di conoscenze antiche. Il delitto in questione, però, è quello di Andrea, l’amante di Adriana: gli vengono cavati gli occhi come in certi inquietanti sacrifici umani, come a voler sottolineare il fatto che sia stato ucciso per aver visto qualcosa che non doveva. La vista è un altro elemento fondamentale all’interno della narrazione: la grande svolta si ha quando Adriana rivede Andrea in metropolitana dopo la morte di questi – per poi scoprire che si tratta di un fantomatico (e fantasmatico) gemello, venuto a Napoli per incontrare il ragazzo. Questa presenza resta quasi sullo sfondo a confondersi con le mura domestiche, con qualche sprazzo di violenza da manuale che fortunatamente viene presentato come tale e aiuta a far insorgere nello spettatore il dubbio che qualcosa non vada nel loro rapporto – e ad un osservatore più attento non sfuggirà, verso la fine, il fatto che ricalchi nei modi il padre di Adriana, che vediamo ucciso all’inizio. Se il gemello sia un fantasma, un’allucinazione o una proiezione del bagaglio emotivo non elaborato di Adriana, Ozpetek lo lascia decidere a noi, ma sul finale sembra voler insistere (seppure in maniera blanda e poco chiara) sulla concretezza dell’elemento sovrannaturale.

La vista torna ancora con altri elementi: la maschera, ovvero l’oggetto che è costato la vita ad Andrea, il velo dell’Utero Velato collocato nella Farmacia degli Incurabili come passo fondamentale del percorso di iniziazione massonica, il Cristo Velato che si scopre lasciandosi intravedere nelle pieghe del velo e, soprattutto, un occhio portafortuna che assomiglia ad un amuleto egizio – che Adriana regalerà al gemello di Andrea per poi vederselo restituire dall’anziana portinaia, l’unica altra persona che sembra averlo visto. Adriana dunque è fortemente proiettata sulla propria interiorità, al punto da “vedere” e sentire qualcuno che assomiglia in tutto e per tutto ad Andrea senza esserlo, una sorta di summa di tutto ciò che ha vissuto. Che sia un’allucinazione o uno spirito generico che si è attaccato ad Adriana in quanto anima tormentata sembra avere poca importanza nell’economia della storia, rispetto al fatto che lei lo vede.

La vista continua ad essere un elemento cardine anche nel personaggio inquietantissimo dell’enorme Sibilla, di cui a stento si comprendono le parole, che però riesce a vedere che Adriana è circondata da ombre (il suo passato, il suo lavoro) ed è vicinissima all’oltretomba – per sensibilità? Perché la sua famiglia è stata colpita da lutti gravissimi? – e mormora parole sconnesse, quasi biascicate, in preda al delirio mistico tipico delle antiche veggenti; la predizione, tuttavia, è positiva: “L’amore si farà”. Se anche questo sia un trucco o magia vera, non è dato saperlo, ma l’elemento mistico persiste: Adriana trova scritti sullo specchio del suo bagno dei numeri che fornisce addirittura come prova alla polizia nell’indagine sulla morte di Andrea (che tra l’altro non arriva mai ad una risoluzione definitiva); tuttavia, ogni gesto razionale ha bisogno del suo contraltare magico, e Adriana porta a Pasquale quegli stessi numeri per giocarli nella cosiddetta “tombola vajassa”, la tombola dei femminielli (elemento portafortuna per eccellenza) che funziona quasi come una lettura dei tarocchi, considerando il significato che ciascun numero ha nella Smorfia napoletana.

Un occhio attento è richiesto allo spettatore anche per cogliere le volontarie e involontarie citazioni cinematografiche con cui Ozpetek punteggia la pellicola: l’apertura sulla scena del delitto è un omaggio a Hitchcock, il rapporto strettissimo tra sesso – un sesso in questo caso realistico, giustamente focalizzato su entrambi gli elementi della coppia, sebbene snervante dopo il secondo minuto e mezzo consecutivo – e delitto che richiama i thriller di Brian De Palma e possiamo trovare degli echi di Dario Argento nei cadaveri martoriati come in un rituale e nella presenza-non presenza del sovrannaturale (Suspiria). Come in ogni film del regista, si respira anche una certa atmosfera alla Almodovar, in questo caso soprattutto nell’accento posto sulla dicotomia maschile/femminile e sul suo superamento: se Almodovar coi suoi personaggi scopertamente queer ha rivoluzionato tutta la produzione cinematografica spagnola (complice il terreno fertile in cui opera), Ozpetek non è altrettanto forte ma fa una scelta azzeccata nel far ricoprire ad un personaggio femminiello un ruolo cardine nella trama e nella vita di Adriana (meno lusinghiera quella di dare un sottotesto stregonesco alla Macbeth ad una coppia lesbica appena accennata), come a sottolineare la maggior completezza nell’anima di chi tocca il maschile e il femminile e li scambia con naturalezza. E c’è una certa misura di scambio anche nel primo ed unico amplesso di Adriana e Andrea, che in penombra si fanno quasi indistinguibili.

Nonostante i molti aspetti positivi, Napoli Velata a tratti incespica: molti elementi risultano assolutamente inutili (la storia del poliziotto innamorato di Adriana) alla trama, altri sono poco approfonditi (la coppia di antiquarie) senza ragione di esserlo, e soprattutto mi chiedo come sia possibile avere nel cast Maria Pia Calzone (donna Imma in Gomorra – La serie e Angelica Carannante in Gatta Cenerentola), che interpreta il capo della squadra di polizia che si occupa dell’omicidio di Andrea, e praticamente non farla recitare. La stessa sottotrama del gemello di Andrea, per quanto assolutamente presente a livello di minutaggio e ricorrenza nella pellicola, sembra chiudersi nel vuoto senza che Adriana si ponga alcuna domanda sulla sua “scomparsa”, e non è uno di quegli elementi per cui bastano una buona dose di volontà di interpretazione o sospensione dell’incredulità. Il personaggio di Adele, la zia di Adriana, per quanto spicchi per la bravura dell’attrice e per la rilevanza nella storia, oltre un certo punto scompare lasciando troppe domande nello spettatore. Napoli Velata risulta quindi essere un buon film, ma col sentore di un esperimento riuscito solo a metà – tuttavia, il merito del film è sicuramente quello di aver osato rappresentare una ghost story assolutamente al di fuori del canone hollywoodiano.

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