Encanto: una parabola multimilionaria con un cuore autentico

Negli ultimi anni, casa Disney ha portato il concetto di “film per famiglie” ad uno stadio successivo rispetto alle storie che abbiamo conosciuto fino circa a dieci anni fa: siamo ormai nel pieno dell’epoca dei film sulle famiglie. Il primissimo esperimento nel nostro secolo può essere fatto risalire a Lilo & Stitch, che non solo accompagna il pubblico nella meravigliosa cultura delle Hawai’i utilizzando il punto di vista non semplice di una bambina che sta elaborando un importante lutto, ma mette la famiglia – biologica e scelta a pari merito – al centro di tutto, tant’è che la celeberrima frase del film recita “Ohana significa famiglia, famiglia significa che nessuno viene abbandonato”. Poi c’è stato Frozen, che essendo però un film del filone delle principesse mette al centro l’autonomia e l’auto-realizzazione di una figura femminile completamente scollegata da personaggi maschili di sorta (in particolare nel seguito); anche Oceania parla di famiglia secondo l’idea di indipendenza da quest’ultima, e la Pixar si è distinta per la commovente storia corale di Coco.

In questo, Encanto è quasi la sintesi di ciò per cui la Disney ha lavorato negli anni per spostare il focus dalle storie d’amore del Rinascimento alla famiglia e al trauma generazionale. Il film, diretto da Byron Howard e Jared Bush, è stato apprezzato in particolar modo per la colonna sonora di Lin-Manuel Miranda ed è stato appena insignito dell’Oscar al miglior film d’animazione.

Il film segue la storia della famiglia Madrigal, una famiglia colombiana dotata di poteri magici ottenuti grazie ad un “miracolo” consegnato alla capofamiglia Alma, rimasta vedova in giovanissima età. Ogni membro della famiglia riceve un “dono” all’età di cinque anni – le figlie di Alma, Pepa e Julieta, sono rispettivamente in grado di controllare il meteo e guarire le ferite; e così anche i nipoti hanno doni particolari, che vanno dalla superforza alla capacità di cambiare aspetto. L’unica che non ha un dono è Mirabel, la più piccola delle figlie di Julieta, perché la sua cerimonia del dono si è interrotta senza spiegazioni.

La famiglia Madrigal è in grande fermento per la cerimonia del piccolo Antonio, nel giorno del suo quinto compleanno, ma Mirabel è l’unica ad accorgersi che la “Casita” dove vive la famiglia è in pericolo.

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Soul: storia di una scintilla che non diventa mai fuoco

È innegabile che Inside Out abbia lanciato un trend, con la sua presa di posizione filosofica su cosa accade ad un livello più “alto” dell’esistenza. Pete Docter ha inquadrato la presa di questo genere di scrittura sul pubblico e ha deciso di alzare l’asticella con Soul, film del 2020 che s’interroga sul funzionamento dell’anima cercando di rendere il concetto fruibile da un pubblico molto vasto. La storia ha per protagonista Joe Gardner, insegnante di musica afroamericano, a un passo dall’ottenere un impiego fisso per via del suo impegno con la direzione della band scolastica. Nonostante la sicurezza di un lavoro nell’insegnamento, il suo più grande sogno è quello di suonare in un jazz club – nonostante le perplessità di sua madre, Joe continua ad accettare ingaggi, finché un suo ex allievo non riesce a metterlo in contatto con la diva del jazz Dorothea Williams per una serata. Per puro caso, però, Joe rimane coinvolto in un incidente e finisce nell’Oltremondo nonostante non sia morto; compresa la situazione, cerca di scappare e si finge uno psicologo per avere accesso all’Antemondo, ovvero lo spazio dove le anime nasciture trovano l’ispirazione per arrivare finalmente a completezza. Per uno scambio di persona, a Joe viene affidata l’anima numero 22, un’anima antica che crea problemi allo staff di questo spazio liminale; 22 ha avuto una stringa di mentori molto illustri, tutti completamente esauriti dal suo atteggiamento poco collaborativo. Riuscirà Joe a tornare sulla Terra e contemporaneamente ad aiutare 22 ad ottenere un pass per nascere?

Il film ha ricevuto il premio come Miglior film d’animazione ai 93esimi Academy Awards.

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Hamilton: sotto i riflettori della Storia

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Uno dei principali ostacoli all’avvicinamento del grande pubblico ai musical è l’accessibilità decisamente scarsa. A parte alcuni rari casi, come le release in DVD per anniversari, è quasi impossibile non affidarsi ai cosiddetti “bootleg”, con buona pace delle centinaia di euro o dollari che ogni biglietto tende a costare, soprattutto per i posti migliori. Per cinque anni, l’innovativo musical Hamilton è circolato allo stesso modo. Ma la Casa del Topo ha fatto anche cose buone, e ha deciso di metterlo su Disney+ per la gioia dei fan e dei neofiti.

Hamilton è innovativo non soltanto per la sua resa pop di un tema storico, ma anche per la figura di riferimento: Alexander Hamilton, uno dei padri fondatori degli Usa nonché primo Segretario al tesoro. Al di fuori di quel contesto nazionale, potrebbe risultare autocelebrativo e ridondante, e forse lo è; tuttavia, la scrittura dinamica e l’utilizzo del rap rendono l’opera quasi un unicum nella storia dei musical.

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[Commissione] Maleficent 2: può un personaggio realizzato lottare per trovare il suo posto nel mondo?

Sin dall’annuncio, Maleficent 2 è stato bollato come un sequel inutile che nessuno aveva chiesto. La verità, se vogliamo essere precisi, è che nemmeno il primo film era stato chiesto, eppure si è rivelato in qualche modo un interessante ribaltamento di prospettiva e un tentativo di dare tridimensionalità ad un personaggio carismatico ma monodimensionale come lo sono stati molti villain fino a tempi abbastanza recenti.

L’idea di voler spiegare, o letteralmente inventarsi le origini di una figura non è stupida, di per sé. Se Maleficent spiegava le ragioni del rancore della regina della brughiera, Maleficent 2 cerca di scavare ancor più nel suo passato aggiungendo elementi di caratterizzazione e di background.

La storia si svolge cinque anni dopo l’incoronazione di Aurora (Elle Fanning) come regina della brughiera, con il principe Filippo che chiede subito la sua mano. Durante la festa per il fidanzamento dei due giovani regnanti, accade però qualcosa che fa sembrare che Malefica (Angelina Jolie) non abbia imparato nulla dagli eventi precedenti, e che anzi sia pronta più che mai a caricare contro la famiglia di Filippo.

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Toy Story 4: forse l’anima pesa un po’ più di 21 grammi

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Toy Story è una di quelle rare saghe in cui i sequel non solo mantengono alto l’onore del primo film, ma impreziosiscono il mondo dei protagonisti aggiungendo livelli di profondità e significato. Toy Story 2 è forse il miglior sequel mai realizzato dal sodalizio Disney-Pixar; molto è dovuto alla cinefilia spinta di John Lasseter, che in quel frangente ha dato prova di maestria nel parodiare e nello spargere citazioni forse rivolte più a mamma e a papà che ai bambini a cui è effettivamente indirizzato il film. Con il finale di Toy Story 3 sembrava che il cerchio potesse chiudersi definitivamente, con l’addio ad Andy e la nuova vita in casa della piccola Bonnie, ma il team ha trovato quegli elementi lasciati in sospeso per poter creare una storia coerente.

Sotto la guida di Josh Cooley, nome rodato alla Pixar nel settore animazione, qui alla sua seconda regia, il gruppo di giocattoli che abbiamo imparato a conoscere ed amare negli scorsi 25 anni torna a combinarne di ogni quando Bonnie è distratta. L’elemento di novità del film è che Bonnie, al contrario di Andy, è una bambina appena in età scolare – e a quell’età i bambini creano. È proprio la creazione di un giocattolo fatto di spazzatura, il buffo forchetto Forky (doppiato da Luca Laurenti), a scatenare l’effetto domino che porterà il cowboy Woody (qui doppiato da Angelo Maggi, che ha fatto un buon lavoro nel sostituire la buonanima di Frizzi) a mettere in discussione il suo ruolo nella storia.

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Aladdin: il remake che più rischiava di floppare è forse il migliore uscito sinora

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Il progetto dei remake dei classici Disney è generalmente accolto con scetticismo soprattutto da chi è stato letteralmente cresciuto da questi. Al di là di casi eclatanti, come il molto poco eccitante trailer de Il re leone, la ricezione effettiva del film varia da esperienza ad esperienza.

Sicuramente il trucco più sporco di quest’operazione è il fare leva sulla nostalgia e sulla forza del brand, ma nel remake di Aladdin non c’è traccia della pigrizia che rischiava di affossare del tutto il tentativo: si sono effettivamente impegnati a confezionare un prodotto che conserva lo spirito dell’originale e fa l’azzardo di dare un proprio contributo (e del suo funzionamento o meno parleremo).

La storia del ladro più affascinante di Agrabah (al di là del grande scoop di Aladdin 3, uno dei pochi sequel Disney usciti direttamente in cassetta ad avere dei momenti genuinamente esilaranti), diretta stavolta dal Guy Ritchie dello Sherlock di Robert Downey Jr., la conosciamo tutti, ogni spettatore è semplicemente curioso di sapere come verrà raccontata nuovamente. E il film si apre già con un’aggiunta: vediamo subito Will Smith a bordo di una nave, che chiama i suoi figli per raccontare loro una storia; da lì il passaggio alla scena di Arabian Nights, che introduce il film animato.

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Endgame: arrivederci alla Marvel che ci ha cresciuti

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Il fatto curioso dei film del Marvel Cinematic Universe è che sono in grado di monopolizzare i monosala di provincia per un periodo di tempo interminabile. Non esiste il tempo canonico: esiste il prima e il dopo gli Avengers, come la nascita di Cristo. Non è soltanto un fatto di programmazione, anche l’orologio biologico di tutta l’industria ha i suoi tempi scanditi dai supereroi: per sapere se un film andrà bene o meno al botteghino, basta controllare in contemporanea a cosa esce (vedi anche: San Valentino 2018 e Heaven’s Feel, che ha dovuto combattere con il lancio di Black Panther).

Endgame ha tutte le buone ragioni per essere attesissimo: dopo i disastri successi in Infinity War, grande monopolizzatore di poltrone della primavera 2018, vogliamo tutti sapere come va a finire, anche chi frequenta l’MCU occasionalmente e vuole stare al passo, mosso da curiosità come nel mio caso. In casa Marvel uno dei punti forti è la gestione dell’hype: un trailer mandato a sorpresa durante l’intervallo del Superbowl è difficile da dimenticare, così come tutta la campagna mediatica con i poster “Avenge the fallen” e tutti i meme che hanno animato l’attesa, non ultimo quello sulla versatilità di Antman.

Ma che dire del film? Senza fare ancora spoiler, Endgame sa di chiusura. Naturalmente non è una chiusura definitiva, dal momento che la grande macchina delle meraviglie non si ferma un minuto e ha in cantiere tante altre diramazioni delle storie dei personaggi al di fuori del dream team degli Avengers. Però sì, il peso di una parentesi iniziata con la frase iconica di Tony Stark (“La verità è che… io sono Iron Man”, che tra l’altro si dice sia stata improvvisata), che ha preso forma piena con il fenomeno Avengers nel 2012 e che è proseguita sino a divenire fenomeno mediatico con delle specificità non immediatamente replicabili, si avverte tutto.

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#FuoriGara Captain Marvel: alti e bassi per una nuova-vecchia protagonista

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Che Captain Marvel sia motore di cambiamenti si capisce già dal fatto che è stato la ragione per cui su RottenTomatoes e affini hanno (finalmente) tolto di mezzo la possibilità di recensire un film non uscito. Attorno al capitano Danvers si è eretto un vero e proprio muro d’odio fatto di cazzate puntualizzate (perché non sorride nel poster?) e conversazioni sterili che muoiono quando si chiede alla persona interessata se ha visto il film, di critiche alla presunta bruttezza (eh?) della Larson. Chissà perché l’esistenza delle donne, nell’anno del signore 2019, fa ancora tanto scalpore.

Tant’è che non parliamo dell’ultima arrivata elevata a simbolo del potere femminile della terza ondata, bensì dell’ispirazione per gli Avenger così come li conosciamo (facendo riferimento al MCU).

Il film, a cavallo dell’entrata in sala, era stato anche protagonista di un altro episodio infelice: alcuni multisala italiani minori (le sale uniche sono un discorso a parte, puntano sul cavallo vincente) avevano orientato la programmazione esclusivamente a favore dell’eroina, penalizzando altre uscite se non ugualmente rilevanti quantomeno meritevoli di affiancarla. Si tratta però di una casistica che, fortunatamente, è abbastanza ristretta da ridimensionare la portata dello scandalo.

Qualsiasi tentativo di boicottaggio è stato, quindi, arginato.

Il film segue le vicende di una donna chiamata Vers, soldato dell’impero Kree affetta da amnesia. L’impero è in guerra con la razza aliena mutaforma degli Skrull, che rapiscono la ragazza per sottoporla ad interrogatorio mentale; grazie ai poteri (ancora incontrollabili) che possiede, Vers riesce a liberarsi e dopo una colluttazione finisce su un pianeta di fondamentale importanza: la Terra, nel 1995.

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Ralph Spacca Internet: viaggio al centro del meme (e non solo)

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Dopo soli sei anni di attesa, arriva in tutto il mondo Ralph Spacca Internet, seguito del film Ralph Spaccatutto. Il primo aveva colpito il pubblico per la sua particolarità rispetto al trend delle principesse imperante a cavallo tra La principessa e il ranocchio e Frozen: oltre all’ambientazione “meta” e al citazionismo finissimo che ha fatto entrare il film nel cuore dei grandi più che dei piccoli, il fatto di renderla una storia incentrata sull’amicizia e sull’accettazione di sé si è rivelato una mossa vincente. Il pensiero va immediatamente ad altre storie su questa falsariga, come Il pianeta del tesoro o Lilo & Stitch, altre pietre miliari della Disney “romance-free”, e Ralph Spacca Internet continua il trend andando ad approfondire ulteriormente la tematica.

Il film segue ancora una volta le vicende di Ralph e Vanellope, alle prese con un nuovo problema: a causa di un incidente di percorso, il cabinato di Sugar Rush si rompe e l’unico modo per aggiustarlo è comprare il pezzo mancante su eBay. Il duo si ritrova così catapultato in internet, dove dovrà saltare di sito in sito per compiere la missione.

Naturalmente, l’elemento base è la vastità dell’internet: è molto semplice distrarsi e perdersi completamente – oltreché combinare casini -, ma tra le tante cose inutili si può trovare anche qualcosa di fondamentale per la scoperta di sé. E i meme, soprattutto quelli, che sono la parte migliore del film.

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Il ritorno di Mary Poppins, ovvero una ricetta magica per affrontare la realtà

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Poteva essere l’ennesimo spreco di soldi in casa Disney. Poteva essere un musical tiepido, senza emozioni, noioso e didascalico – e invece hanno chiamato Rob Marshall a dirigerlo. Alla sua terza collaborazione con la casa della malvagia pantegana capitalista, Marshall dirige Il ritorno di Mary Poppins, altra uscita miracolosa dal development hell, e se non ci riporta al 1965 (ma non era necessario) ci regala un giro spettacolare sulle montagne russe.

Il film è l’adattamento cinematografico del vero sequel di Mary Poppins e narra la storia dei giovani Banks, ora adulti, alle prese con le conseguenze della Grande Depressione. L’anno è il 1930 e Michael Banks è un padre vedovo con tre figli a carico e un impiego part-time in banca che basta a malapena per crescerli – per questo motivo, troviamo dei bambini ben più consapevoli e autosufficienti rispetto a quelli del primo film, i cui problemi più grandi erano la mancanza di disciplina e la poca comunicazione con genitori troppo presi dal sé. Le lezioni del primo film non sono state dimenticate: nonostante il multitasking non sia esattamente il suo forte, Michael Banks si occupa in prima linea dei suoi figli, chiede loro scusa se alza la voce fuori contesto, anche quando ha tutte le ragioni di essere stressato; inoltre, ha un rapporto sano e sincero con la sorella Jane, politicamente impegnata come la madre.

Il motivo del ritorno di Mary Poppins, stavolta, ha un sapore decisamente diverso rispetto al primo film, il che lo rende forse più semplice da accostare a Pomi d’ottone e manici di scopa (rilevante comunque per il discorso per un motivo di cui parlerò più sotto), che pure parlava di ritrovare un senso di innocenza intatto in uno scenario tragico. L’atmosfera gioiosa e colorata del primo film si arricchisce qui della sfumatura dell’escapismo – non quello in cui ci si chiude per ignorare il mondo esterno (come dice una delle canzoni del film), ma quella gioia in cui si può trovare la forza di far fronte a ciò che accade. In questo senso, è un film più maturo e complesso del primo, senza però compromettere la natura del personaggio di Mary Poppins o quella della storia, facendo anzi un salto di qualità.

Il modo in cui Rob Marshall ci accompagna per mano, tramite la figura dell’acciarino Jack (uno straordinario Lin-Manuel Miranda), in una Londra dai colori più freddi di quella del primo film rende ancor più l’idea della partenza per un viaggio che rivoluzionerà il punto di vista dei personaggi (in maniera letterale e non) – in modo simile, se proprio vogliamo indulgere nel meme, alla presentazione dell’ennesima incarnazione del Dottore.

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