L’horror psicologico di Jordan Peele è ormai genere a sé: Get Out è un caso unico che ha generato discussioni accese tra appassionati di horror e thriller, che hanno cercato di definirne la natura senza arrivare (com’è giusto che sia) a risposte uniche. Sulla stessa scia è arrivato da pochi giorni in sala Noi/Us, suo secondo lavoro. Con un debutto come Get Out, l’asticella è altissima ma il regista non sembra aver intenzione di replicare pedissequamente la formula già presentata; l’angoscia sottile che permea la storia rimanda senz’altro all’altro titolo, ma non siamo di fronte ad una copia carbone.
Per questo secondo tentativo Jordan Peele analizza le dinamiche di un nucleo familiare afroamericano composto da madre, padre e due figli. Nella sequenza iniziale, ambientata nel 1986 come da riferimenti espliciti, il regista ci mostra una bambina che si perde nella casa degli specchi del Luna Park di Santa Cruz e ha in essa un incontro che la sconvolge per sempre.
Anni dopo, il trauma minaccia di riemergere in maniera più letterale di quanto si possa pensare.
Il cinema di Jordan Peele è una foresta di simboli: i livelli di lettura aggiunti sono innumerevoli, e ad una prima visione (quella cioè concentrata sul seguire l’intreccio) alcuni possono perdersi per strada. Il livello secondario più immediato è quello della critica sociale, che qui si muove in un senso più ambizioso che nel primo andando non soltanto a coinvolgere due gruppi etnici, ma l’umanità intera.
ATTENZIONE: Il testo a seguire contiene SPOILER Continua a leggere