Noi: l’abisso che ci guarda indietro e risale

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L’horror psicologico di Jordan Peele è ormai genere a sé: Get Out è un caso unico che ha generato discussioni accese tra appassionati di horror e thriller, che hanno cercato di definirne la natura senza arrivare (com’è giusto che sia) a risposte uniche. Sulla stessa scia è arrivato da pochi giorni in sala Noi/Us, suo secondo lavoro. Con un debutto come Get Out, l’asticella è altissima ma il regista non sembra aver intenzione di replicare pedissequamente la formula già presentata; l’angoscia sottile che permea la storia rimanda senz’altro all’altro titolo, ma non siamo di fronte ad una copia carbone.

Per questo secondo tentativo Jordan Peele analizza le dinamiche di un nucleo familiare afroamericano composto da madre, padre e due figli. Nella sequenza iniziale, ambientata nel 1986 come da riferimenti espliciti, il regista ci mostra una bambina che si perde nella casa degli specchi del Luna Park di Santa Cruz e ha in essa un incontro che la sconvolge per sempre.

Anni dopo, il trauma minaccia di riemergere in maniera più letterale di quanto si possa pensare.

Il cinema di Jordan Peele è una foresta di simboli: i livelli di lettura aggiunti sono innumerevoli, e ad una prima visione (quella cioè concentrata sul seguire l’intreccio) alcuni possono perdersi per strada. Il livello secondario più immediato è quello della critica sociale, che qui si muove in un senso più ambizioso che nel primo andando non soltanto a coinvolgere due gruppi etnici, ma l’umanità intera.

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#FuoriGara Captain Marvel: alti e bassi per una nuova-vecchia protagonista

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Che Captain Marvel sia motore di cambiamenti si capisce già dal fatto che è stato la ragione per cui su RottenTomatoes e affini hanno (finalmente) tolto di mezzo la possibilità di recensire un film non uscito. Attorno al capitano Danvers si è eretto un vero e proprio muro d’odio fatto di cazzate puntualizzate (perché non sorride nel poster?) e conversazioni sterili che muoiono quando si chiede alla persona interessata se ha visto il film, di critiche alla presunta bruttezza (eh?) della Larson. Chissà perché l’esistenza delle donne, nell’anno del signore 2019, fa ancora tanto scalpore.

Tant’è che non parliamo dell’ultima arrivata elevata a simbolo del potere femminile della terza ondata, bensì dell’ispirazione per gli Avenger così come li conosciamo (facendo riferimento al MCU).

Il film, a cavallo dell’entrata in sala, era stato anche protagonista di un altro episodio infelice: alcuni multisala italiani minori (le sale uniche sono un discorso a parte, puntano sul cavallo vincente) avevano orientato la programmazione esclusivamente a favore dell’eroina, penalizzando altre uscite se non ugualmente rilevanti quantomeno meritevoli di affiancarla. Si tratta però di una casistica che, fortunatamente, è abbastanza ristretta da ridimensionare la portata dello scandalo.

Qualsiasi tentativo di boicottaggio è stato, quindi, arginato.

Il film segue le vicende di una donna chiamata Vers, soldato dell’impero Kree affetta da amnesia. L’impero è in guerra con la razza aliena mutaforma degli Skrull, che rapiscono la ragazza per sottoporla ad interrogatorio mentale; grazie ai poteri (ancora incontrollabili) che possiede, Vers riesce a liberarsi e dopo una colluttazione finisce su un pianeta di fondamentale importanza: la Terra, nel 1995.

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#FuoriGara La casa di Jack: una lezione sul male

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Attorno a questa pellicola si sono fatte delle gran chiacchiere da prima pagina, c’è stata una maretta mediatica più o meno prevedibile e l’opinione pubblica si è spaccata in due parti eguali come per ogni prodotto autoriale. Etichettato come il film più disturbante degli ultimi [inserire cifra a piacere] anni, La casa di Jack di Lars von Trier, che ha l’onore di essere l’interpretazione-testamento del Bruno Ganz de Il cielo sopra Berlino, narra genesi e crescita di uno spietato serial killer. Interpretato da Matt Dillon, il serial killer viene guidato in una sorta di lunga e bizzarra seduta di psicanalisi da una misteriosa figura chiamata “Virgilio” (sì, quel Virgilio), durante la quale ripercorrerà cinque tappe apparentemente scollegate tra loro della sua prolifica carriera criminale.

Attraverso questi cinque incidenti, così come vengono descritti, Lars von Trier racconta il percorso di crescita di un professionista ed un artista, che come tutti i suoi grandi predecessori è interessato alla natura della vita e della morte. Viene naturalmente tirata in ballo anche tutta un’idea estetica dell’assassinio come sorta di sacrificio rituale, come ricerca di nuovi stimoli e forme, tutto accompagnato dal filo conduttore parallelo della costruzione di una casa. Quella di Jack è anche metafora dell’ambizione, che con ogni incidente cresce fino a diventare ingestibile; quello famoso del cric, durante il quale uccide la sconosciuta interpretata da Uma Thurman, è a tutti gli effetti un incidente scaturito da un impulso. Tutti gli altri saranno caratterizzati da una sperimentazione simile a quella di un performer di qualsiasi natura.

Ecco, quella di Jack più che arte raffinata può essere definita in tutto e per tutto performance art. Se Hannibal Lecter – soprattutto quello interpretato da Mikkelsen – ha come caratteristica dominante quella di essere un esteta delle finezze, i prodotti di Jack possono essere percepiti come più sporchi e frutto di sperimentazioni anche fallimentari (vedi la seconda sequenza) e in quanto tali più comprensibili. Del disegno criminale di Lecter apprezziamo, come spettatori, l’elaborazione e la grandiosità; di quello di Jack apprezziamo in primis lo sforzo.

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