Green Book: ma alla fine, poi, il film com’era?

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Non è una regola che Miglior film e Miglior regia debbano essere assegnati allo stesso film in corsa, ma quando succede c’è sempre un po’ di sbigottimento generale. Nessun basimento eguaglierà però quello di Spike Lee che cerca di lanciarsi letteralmente fuori dalla sala quando il premio per il Miglior film degli Academy Awards 2019 viene assegnato a Green Book di Peter Farrelly. Fior fior di candidature e di vittorie: Miglior sceneggiatura originale e Miglior attore non protagonista per Mahershala Ali nei panni del virtuoso del jazz Don Shirley. Il film parla dell’amicizia tra il buttafuori italoamericano Tony Vallelonga, anche detto Lip per la sua brillante parlantina, e Shirley, musicista afroamericano in cerca di un autista che lo accompagni in tournée nel profondo sud degli Stati Uniti.

Il Green Book a cui il titolo fa riferimento è una sorta di piccolo manuale del viaggiatore, ideato da un postino afroamericano, che lo stesso Tony Lip usa come punto di riferimento. Per una maggiore veridicità della sceneggiatura, è stato interpellato come co-autore Nick Vallelonga, figlio del Tony Lip originale, che si è detto entusiasta del risultato.

Non tutti, però, lo sono stati. A cominciare dal brusio di fondo della famiglia di Shirley, che parlerebbe addirittura di falsificazione del rapporto tra i due nonostante le numerose testimonianze esistenti, per poi passare ai sentimenti offesi di Spike Lee, per poi passare a chi nemmeno lo voleva candidato. Per non parlare della tiritera sul politicamente corretto, della quale si può discutere senza necessariamente diventare offensivi.

Ma il film, alla fine dei giochi, com’è?

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Vice – L’uomo nell’ombra: una fetta d’America tra documentario e fiction

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Il difetto delle biopic è che oscillano tra l’essere troppo didascalici e l’essere eccessivamente fantasiosi. Vice è una felice eccezione. Complice la regia dinamica di Adam McKay (regista de La grande scommessa, film che gli ha fatto intascare la statuetta per la miglior sceneggiatura di quell’annata), il racconto dell’ascesa e delle macchinazioni del vicepresidente di George W. Bush è sospeso tra realtà e finzione, con il documentario che si mischia alla narrazione tradizionale. Non è classificabile come docu-film biografico in sé, ma ne ha alcune caratteristiche, a partire dall’utilizzo di filmati reali che ritraggono il vice o eventi mediatici rilevanti (primo tra tutti, naturalmente, l’attacco alle Torri Gemelle).

Vice è, tra l’altro, anche il film che ha fatto finalmente dire basta alle pazze variazioni di peso a Christian Bale – che per assomigliare a Cheney è ingrassato un bel po’, chissà come, e non è tutto merito del trucco da Oscar di Greg Cannom (lo stesso che trasformò Gary Oldman in Dracula e in Mason Verger di Hannibal). Del privato del vice viene toccato meno: il regista preferisce concentrarsi sul percorso politico attraverso una serie di salti in avanti e indietro che rimescolano i punti della linea temporale; il film si apre con il caos in cui l’America precipita subito dopo l’attentato alle Torri e torna al sequestro della patente di Cheney nel ’63 per guida in stato di ebbrezza e successivamente al rallentamento della carriera universitaria del vice a Yale a causa dell’alcolismo. Il film non si serve di un narratore onnisciente, bensì di una prospettiva molto particolare che sarà funzionale ad un punto cruciale della pellicola.

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#FuoriGara Captain Marvel: alti e bassi per una nuova-vecchia protagonista

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Che Captain Marvel sia motore di cambiamenti si capisce già dal fatto che è stato la ragione per cui su RottenTomatoes e affini hanno (finalmente) tolto di mezzo la possibilità di recensire un film non uscito. Attorno al capitano Danvers si è eretto un vero e proprio muro d’odio fatto di cazzate puntualizzate (perché non sorride nel poster?) e conversazioni sterili che muoiono quando si chiede alla persona interessata se ha visto il film, di critiche alla presunta bruttezza (eh?) della Larson. Chissà perché l’esistenza delle donne, nell’anno del signore 2019, fa ancora tanto scalpore.

Tant’è che non parliamo dell’ultima arrivata elevata a simbolo del potere femminile della terza ondata, bensì dell’ispirazione per gli Avenger così come li conosciamo (facendo riferimento al MCU).

Il film, a cavallo dell’entrata in sala, era stato anche protagonista di un altro episodio infelice: alcuni multisala italiani minori (le sale uniche sono un discorso a parte, puntano sul cavallo vincente) avevano orientato la programmazione esclusivamente a favore dell’eroina, penalizzando altre uscite se non ugualmente rilevanti quantomeno meritevoli di affiancarla. Si tratta però di una casistica che, fortunatamente, è abbastanza ristretta da ridimensionare la portata dello scandalo.

Qualsiasi tentativo di boicottaggio è stato, quindi, arginato.

Il film segue le vicende di una donna chiamata Vers, soldato dell’impero Kree affetta da amnesia. L’impero è in guerra con la razza aliena mutaforma degli Skrull, che rapiscono la ragazza per sottoporla ad interrogatorio mentale; grazie ai poteri (ancora incontrollabili) che possiede, Vers riesce a liberarsi e dopo una colluttazione finisce su un pianeta di fondamentale importanza: la Terra, nel 1995.

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BlacKkKlansman, ovvero i grossi vantaggi dell’essere bilingue

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Si dice che quando non è stato annunciato come miglior film di quest’edizione degli Oscar, Spike Lee abbia tentato di fuggire dalla sala e sia stato placcato dalla sicurezza. Sarà stata la mise viola acceso da personaggio di Hirohiko Araki a non averlo fatto passare inosservato.

In compenso, a BlacKkKlansman è stato assegnato il premio per la miglior sceneggiatura non originale (e una pioggia di applausi e il Grand Prix della giuria a Cannes, che comunque è un buon banco di prova). La pellicola è infatti l’adattamento del romanzo omonimo di Ron Stallworth, il protagonista del film – nonché primo poliziotto afroamericano della divisione di Colorado Springs. La vicenda segue le peripezie di Stallworth (interpretato da John David Washington, figlio di Denzel) al dipartimento intelligence; il poliziotto s’imbatte per caso in un annuncio di reclutamento del Kkk e decide di tentare la fortuna telefonando al presidente della cellula presente nella sua area.

Il fatto interessante è che l’accento di Stallworth è sostanzialmente indistinguibile da quello tipicamente associato agli afroamericani (il che sarà anche il centro di una gag), cosa che lo aiuterà a guadagnarsi il favore del presidente. A impersonarlo sarà Flip Zimmerman (Adam Driver, qui alla sua prima nomination per un Oscar), un poliziotto bianco facente parte di un altro gruppo preso di mira dal clan – Zimmerman è infatti ebreo.

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#FuoriGara La casa di Jack: una lezione sul male

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Attorno a questa pellicola si sono fatte delle gran chiacchiere da prima pagina, c’è stata una maretta mediatica più o meno prevedibile e l’opinione pubblica si è spaccata in due parti eguali come per ogni prodotto autoriale. Etichettato come il film più disturbante degli ultimi [inserire cifra a piacere] anni, La casa di Jack di Lars von Trier, che ha l’onore di essere l’interpretazione-testamento del Bruno Ganz de Il cielo sopra Berlino, narra genesi e crescita di uno spietato serial killer. Interpretato da Matt Dillon, il serial killer viene guidato in una sorta di lunga e bizzarra seduta di psicanalisi da una misteriosa figura chiamata “Virgilio” (sì, quel Virgilio), durante la quale ripercorrerà cinque tappe apparentemente scollegate tra loro della sua prolifica carriera criminale.

Attraverso questi cinque incidenti, così come vengono descritti, Lars von Trier racconta il percorso di crescita di un professionista ed un artista, che come tutti i suoi grandi predecessori è interessato alla natura della vita e della morte. Viene naturalmente tirata in ballo anche tutta un’idea estetica dell’assassinio come sorta di sacrificio rituale, come ricerca di nuovi stimoli e forme, tutto accompagnato dal filo conduttore parallelo della costruzione di una casa. Quella di Jack è anche metafora dell’ambizione, che con ogni incidente cresce fino a diventare ingestibile; quello famoso del cric, durante il quale uccide la sconosciuta interpretata da Uma Thurman, è a tutti gli effetti un incidente scaturito da un impulso. Tutti gli altri saranno caratterizzati da una sperimentazione simile a quella di un performer di qualsiasi natura.

Ecco, quella di Jack più che arte raffinata può essere definita in tutto e per tutto performance art. Se Hannibal Lecter – soprattutto quello interpretato da Mikkelsen – ha come caratteristica dominante quella di essere un esteta delle finezze, i prodotti di Jack possono essere percepiti come più sporchi e frutto di sperimentazioni anche fallimentari (vedi la seconda sequenza) e in quanto tali più comprensibili. Del disegno criminale di Lecter apprezziamo, come spettatori, l’elaborazione e la grandiosità; di quello di Jack apprezziamo in primis lo sforzo.

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Into the Spider-verse: La pazza tragicommedia di un’icona

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Il bello delle scene extra made in Marvel è che alle volte danno assaggi migliori del film che vanno a chiudere. Sin dalla sua comparsa dopo i titoli di coda di Venom, Spiderman: Into the SpiderVerse si presenta come un’idea del tutto innovativa; la scena alla fine del cinecomic antieroico chiarisce già da subito tutte le peculiarità del film, a cominciare dalle didascalie che compaiono in sovrimpressione alle scene.

Solo grandi nomi per le nuove avventure della maschera di punta di casa Marvel: dirige i giochi il trio Ramsey (Le 5 Leggende), Persichetti (rodato in casa Disney, al debutto da regista) e Rothman (sceneggiatore di 22 Jump Street, anche lui debuttante alla regia). Il duo Lord-Miller (Lego Movie), con manforte da nientemeno che Alex Hirsch (Gravity Falls), a questo giro firma quasi un capolavoro. Le animazioni non sono fluide e fotorealistiche, ma a scatti, quasi come quei blocchetti a scorrimento che messi in sequenza creano il movimento. È questo il fulcro della tecnica stilistica utilizzata per narrare la storia di Miles Morales, un nuovo, giovane Spider-Man fra i tanti, che riceve il testimone nientemeno che da Peter Parker in persona. Il film incomincia seguendo le sue vicende, che si snodano a ritmo di hip-hop lo-fi e hanno i colori vividi della street art – motivo tematico del giovane protagonista. Miles si trova costretto ad abbandonare la sua confortevole quotidianità per frequentare un prestigioso college nel quale fatica ad ambientarsi; lì incontra l’unica persona disposta ad accettare (più o meno) le sue stranezze, Gwen, incontrata durante una lezione premonitrice sulla teoria degli universi paralleli, ma una sola parvenza d’amicizia non basta a sciogliere i mille dubbi che lo attanagliano.

La figura con cui ha una connessione più salda è quella dello zio Aaron, fratello del padre poliziotto, che lo incentiva a dare sfogo ad una vena artistica che si realizza attraverso i graffiti – elemento estetico portante del personaggio. È proprio durante una di queste sessioni che Miles viene morso dal fatidico ragno radioattivo.

Se il pubblico è riuscito a simpatizzare con Peter Parker anche per via della sua iniziale goffaggine e poca padronanza dei poteri, condensata per lo più nella porzione iniziale di tutti i film che riguardano lo SpiderMan originale, Miles risulta adorabile. La quasi totale incapacità di governare i cambiamenti del suo corpo è usata per delle gag davvero gustose e persino lo scenario diventa funzionale alla descrizione del caos che si muove sotto la superficie del personaggio.

Ma c’è molto più che un semplice percorso da ragazzino imbranato ad eroe qui.

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La Favorita: un bizzarro quadro di corte

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Nonostante il bottino un po’ povero agli Academy Awards (premiata la performance di Olivia Colman con la statuetta di miglior attrice protagonista), La Favorita è un’altra grande prova per il regista greco Lanthimos. C’è da dire che la pellicola s’è già portata a casa quasi tutto il vincibile ai BAFTA; sarebbe dunque stato ridondante venir incensato ulteriormente dalla giuria americana.

Dopo l’ambientazione distopica di The Lobster e quella contemporanea del Cervo Sacro, Lanthimos opta per un’Inghilterra settecentesca cupa e caricaturale nel pieno della guerra di successione spagnola. Naturalmente, conoscendo il regista, si sa già che non si tratterà di una ricostruzione storica: Lanthimos si concentra sulle vicende sentimentali e politiche alla corte di Anna Stuart (Colman), nel cuore della guerra di successione spagnola; i piani amministrativi della consigliera della regina Sarah Churchill (Rachel Weisz) vengono scombinati da Abigail Marsham (Emma Stone), nobile caduta in disgrazia e cugina della Churchill che s’infiltra a corte con l’intento di imbarcarsi in una spettacolare scalata sociale.

Ciò che colpisce, tra i tanti elementi, è la caratterizzazione delle tre protagoniste – più dinamiche le dame di corte, la complessità della regina sta nella rappresentazione delle sue fragilità. Sarah ed Abigail si trovano in una parabola narrativa speculare: il lento declino di Sarah è l’ascesa di Abigail, ma non è tutto così scontato. Anche i personaggi secondari contribuiscono allo svilupparsi di una trama corale: notevole il personaggio del tory Robert Harley (Nick Hoult), che muove le acque sfruttando l’astuzia di Abigail per far cadere Sarah.

Un’ulteriore particolarità del film è che nonostante l’ambientazione precisa, per il suo umorismo problematico – che a tratti sfocia nel pessimo gusto – e i dialoghi arguti ricorda certi serial in costume molto in voga. La favorita si differenzia ancora dai lavori precedenti del regista greco proprio per questa caratteristica: è una sorta di commedia grottesca di corte dove le brutture dell’umanità vengono messe in risalto e spinte sino all’esasperazione, ma ciononostante consente di provare una certa qual simpatia per questa giostra di personaggi assurdi pronti a tutto per il potere.

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