Parasite: la legge durissima della guerra fra poveri

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Quando ha vinto la Palma d’oro lo scorso maggio, di Parasite e del regista Bong Joon-ho oggettivamente fregava a pochi. Cultori del filone a parte, s’intende. Tant’è che in una recensione di Mademoiselle si attribuisce la vittoria della Palma a Park Chan-wook.

Complice la distribuzione vergognosa dei film al di fuori del polo d’interesse delle major, Parasite è giunto nelle nostre sale solo il 7 novembre, travolto dal resto dei titoli usciti al cinema quel giorno. Fortunatamente, il successo di critica ha consentito al film di restare ancora oggi in alcuni cinema d’essai. Questo, ovviamente, solo nelle città dov’è possibile accedere a rassegne d’essai.

Parasite segue la storia rocambolesca di una famiglia che non riesce a far quadrare i conti a fine mese, e a cui viene concessa la possibilità di ribaltare il risultato: a Ki-woo, il figlio minore, viene offerta da un amico la possibilità di sostituirlo come insegnante d’inglese della figlia maggiore della ricca famiglia Park. Come la famiglia di Ki-woo, anche i Park sono quattro e vivono nella grande casa di un archistar in un quartiere residenziale isolato, quasi un mondo a parte. I due nuclei familiari formano un parallelismo perfetto: i genitori, una figlia ed un figlio; ma mentre i Kim si industriano per sopravvivere affinando l’ingegno fino a diventare maestri dell’inganno, i Park vivono beatamente ignoranti e finiscono con l’essere raggirati alla grande.

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Dolor y gloria: Almodovar parla sempre di sé, ma non stanca

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Sembra che ogni tanto Almodovar abbia il bisogno fisiologico di guardarsi indietro e raccogliere in un film le conclusioni a cui arriva. Lo ha fatto con Volver, l’opera attraverso cui ha elaborato il lutto della madre, lo ha fatto con La mala educación e oggi ritorna con Dolor y gloria. Quest’ultimo, proiettato a Cannes in contemporanea con l’uscita mondiale nelle sale, è particolarmente esplicito: il protagonista Salvador Mallo, interpretato da Antonio Banderas, è un regista in piena crisi che rivive costantemente il proprio passato attraverso elaborati flashback, cercando contemporaneamente di non farsi uccidere dalla depressione e dai dolori cronici da cui è afflitto. Rovistare nell’album dei ricordi, in qualche modo, è parte della terapia che dovrebbe dargli uno spiraglio di riconnessione con la realtà, che è ovattata dai mille acciacchi e dai mille pensieri.

Almodovar ha sempre sfruttato in tutto e per tutto il potenziale di Banderas, non incastrandolo mai in ruoli singoli, per quanto ogni performance fosse iconica (a partire dai primi passi nel mondo del cinema, mossi insieme al regista in Matador e La legge del desiderio). Questa volta l’ha sottoposto alla prova difficile di interpretare un doppio del regista – romanzato per permettersi di esplorare anche quei confini che per ragioni personali non ha varcato.

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BlacKkKlansman, ovvero i grossi vantaggi dell’essere bilingue

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Si dice che quando non è stato annunciato come miglior film di quest’edizione degli Oscar, Spike Lee abbia tentato di fuggire dalla sala e sia stato placcato dalla sicurezza. Sarà stata la mise viola acceso da personaggio di Hirohiko Araki a non averlo fatto passare inosservato.

In compenso, a BlacKkKlansman è stato assegnato il premio per la miglior sceneggiatura non originale (e una pioggia di applausi e il Grand Prix della giuria a Cannes, che comunque è un buon banco di prova). La pellicola è infatti l’adattamento del romanzo omonimo di Ron Stallworth, il protagonista del film – nonché primo poliziotto afroamericano della divisione di Colorado Springs. La vicenda segue le peripezie di Stallworth (interpretato da John David Washington, figlio di Denzel) al dipartimento intelligence; il poliziotto s’imbatte per caso in un annuncio di reclutamento del Kkk e decide di tentare la fortuna telefonando al presidente della cellula presente nella sua area.

Il fatto interessante è che l’accento di Stallworth è sostanzialmente indistinguibile da quello tipicamente associato agli afroamericani (il che sarà anche il centro di una gag), cosa che lo aiuterà a guadagnarsi il favore del presidente. A impersonarlo sarà Flip Zimmerman (Adam Driver, qui alla sua prima nomination per un Oscar), un poliziotto bianco facente parte di un altro gruppo preso di mira dal clan – Zimmerman è infatti ebreo.

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Dogman, ovvero l’inutilità del male

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Fresco del premio speciale Palm Dog e della Palma d’oro al miglior attore per il protagonista Marcello Fonte al Festival di Cannes, Dogman riesce a tener testa persino ad un gigante come Deadpool classificandosi al secondo posto dopo questo nel suo weekend d’apertura – pur con uno stacco netto. Garrone riesce ancora una volta a dare alla realtà una certa dimensione sinistra e angosciante, complice anche la crudezza del fatto di cronaca a cui si è ispirato: si tratta del delitto del Canaro della Magliana, risalente al 1988, che vede protagonista un toelettatore di cani e la sua vendetta nei confronti di un piccolo delinquente del posto da cui subiva angherie; l’omicidio è passato alla storia contemporanea come uno dei più cruenti in assoluto – anche se parte della ricostruzione si rivelò inesatta.

Parlare di fatti di cronaca nell’arte non è semplice. Vuoi per la recentissima paura dilagante di glorificare involontariamente il male, vuoi perché è lecito chiedersi quanto sia giusto ed etico prendere storie di persone che fanno attivamente del male, situazioni in cui si è sparso del sangue vero, come base per un racconto di pura fiction. Garrone però scioglie questo nodo con eleganza: non porta in scena Pietro De Negri, il Canaro originale, un uomo preda di un delirio da cocaina e affetto da un probabile disturbo paranoide, bensì Marcello (omonimo dell’attore che lo interpreta), un uomo gentile che annega lentamente in un pantano da cui non si rialzerà mai. Di Marcello, Garrone sceglie di mostrare al pubblico prima di tutto una tenerezza e una goffaggine quasi infantili che emergono tutte dal suo sorriso storto e dalla voce “da cartone animato”, con cui nella prima scena apostrofa bonariamente un pitbull per poterlo lavare.

Marcello è un uomo palesemente buono, che nella vita reale ci starebbe anche simpatico e gli affideremmo volentieri il nostro cucciolo: lo si vede non soltanto dalla dolcezza assoluta con cui tratta certi bestioni che a chiunque altro farebbero paura, ma anche da quanto sia benvoluto nel quartiere (che ha una somiglianza inquietante con l’idroscalo di Ostia) e dall’amore assoluto che nutre per la figlia, una bambina pura tanto quanto ci appare lui. Tuttavia, la paura è capace di far compiere anche a persone buone azioni riprovevoli; per tenere a bada il piccolo delinquente Simone, ex pugile col cervello martoriato dalla cocaina, Marcello procura le dosi per tenerlo buono come si farebbe con un cane. In un crescendo di violenza, la sudditanza psicologica nei confronti di quest’uomo porterà Marcello a fare una scelta errata e a un’esasperazione tale da avvicinarlo – ma mai permettergli di sovrapporsi – al Canaro vero.

Ed è qui che Garrone appone il suo sigillo: alla violenza martellante, esagerata e barocca del crimine reale oppone qualcosa di più sottile, oserei dire di più sobrio e maggiormente concentrato sulla psiche di Marcello e sul linguaggio del corpo dei due soggetti – del quale parlerò a breve. Se ci si aspetta che Garrone riporti la versione dei fatti così come scritta sugli atti processuali e sui giornali, si rimarrà delusi – come si potrebbe rimaner delusi da Primo amore, angosciante retelling della storia del cacciatore di anoressiche come pure da L’imbalsamatore, basato sulla morbosa vicenda del nano di Termini. Per Garrone la realtà è un canovaccio, un mezzo per consentirgli di parlare di quei sentimenti da cui fuggiamo e che releghiamo costantemente ad una dimensione “altra” da noi, perché ci fa paura l’idea di capire e riuscire a relazionarsi con delle sensazioni perverse come quelle mostrate su schermo; ed è anche questa la funzione di un film, in fondo.

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