Dogman, ovvero l’inutilità del male

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Fresco del premio speciale Palm Dog e della Palma d’oro al miglior attore per il protagonista Marcello Fonte al Festival di Cannes, Dogman riesce a tener testa persino ad un gigante come Deadpool classificandosi al secondo posto dopo questo nel suo weekend d’apertura – pur con uno stacco netto. Garrone riesce ancora una volta a dare alla realtà una certa dimensione sinistra e angosciante, complice anche la crudezza del fatto di cronaca a cui si è ispirato: si tratta del delitto del Canaro della Magliana, risalente al 1988, che vede protagonista un toelettatore di cani e la sua vendetta nei confronti di un piccolo delinquente del posto da cui subiva angherie; l’omicidio è passato alla storia contemporanea come uno dei più cruenti in assoluto – anche se parte della ricostruzione si rivelò inesatta.

Parlare di fatti di cronaca nell’arte non è semplice. Vuoi per la recentissima paura dilagante di glorificare involontariamente il male, vuoi perché è lecito chiedersi quanto sia giusto ed etico prendere storie di persone che fanno attivamente del male, situazioni in cui si è sparso del sangue vero, come base per un racconto di pura fiction. Garrone però scioglie questo nodo con eleganza: non porta in scena Pietro De Negri, il Canaro originale, un uomo preda di un delirio da cocaina e affetto da un probabile disturbo paranoide, bensì Marcello (omonimo dell’attore che lo interpreta), un uomo gentile che annega lentamente in un pantano da cui non si rialzerà mai. Di Marcello, Garrone sceglie di mostrare al pubblico prima di tutto una tenerezza e una goffaggine quasi infantili che emergono tutte dal suo sorriso storto e dalla voce “da cartone animato”, con cui nella prima scena apostrofa bonariamente un pitbull per poterlo lavare.

Marcello è un uomo palesemente buono, che nella vita reale ci starebbe anche simpatico e gli affideremmo volentieri il nostro cucciolo: lo si vede non soltanto dalla dolcezza assoluta con cui tratta certi bestioni che a chiunque altro farebbero paura, ma anche da quanto sia benvoluto nel quartiere (che ha una somiglianza inquietante con l’idroscalo di Ostia) e dall’amore assoluto che nutre per la figlia, una bambina pura tanto quanto ci appare lui. Tuttavia, la paura è capace di far compiere anche a persone buone azioni riprovevoli; per tenere a bada il piccolo delinquente Simone, ex pugile col cervello martoriato dalla cocaina, Marcello procura le dosi per tenerlo buono come si farebbe con un cane. In un crescendo di violenza, la sudditanza psicologica nei confronti di quest’uomo porterà Marcello a fare una scelta errata e a un’esasperazione tale da avvicinarlo – ma mai permettergli di sovrapporsi – al Canaro vero.

Ed è qui che Garrone appone il suo sigillo: alla violenza martellante, esagerata e barocca del crimine reale oppone qualcosa di più sottile, oserei dire di più sobrio e maggiormente concentrato sulla psiche di Marcello e sul linguaggio del corpo dei due soggetti – del quale parlerò a breve. Se ci si aspetta che Garrone riporti la versione dei fatti così come scritta sugli atti processuali e sui giornali, si rimarrà delusi – come si potrebbe rimaner delusi da Primo amore, angosciante retelling della storia del cacciatore di anoressiche come pure da L’imbalsamatore, basato sulla morbosa vicenda del nano di Termini. Per Garrone la realtà è un canovaccio, un mezzo per consentirgli di parlare di quei sentimenti da cui fuggiamo e che releghiamo costantemente ad una dimensione “altra” da noi, perché ci fa paura l’idea di capire e riuscire a relazionarsi con delle sensazioni perverse come quelle mostrate su schermo; ed è anche questa la funzione di un film, in fondo.

ATTENZIONE: Il testo a seguire contiene SPOILER

Dogman è un film sottilmente inquietante, e nonostante faccia di tutto per nasconderlo fino alla fine, è evidente sin dalla prima inquadratura: dal buio dei titoli di testa passiamo all’inquadratura del volto ringhiante del pitbull di cui prima, che digrigna i denti alla telecamera emettendo un suono che destabilizza lo spettatore quasi come un jumpscare; è soltanto successivamente che passa dall’essere minaccioso all’essere un cucciolone che si gode un trattamento di bellezza. È anche un po’ buffo, il nostro protagonista, perché apostrofa come “amore” sia certi cagnolini odiosi che strillano indemoniati ad ogni minimo spostamento d’aria, sia certi colossi col pelo naturalmente rasta che potrebbero abbattere il toelettatore con una zampata. È questa sua insospettabilità a rendere ancora più disturbante il tutto, sebbene rispetto al fatto reale sia stato edulcorato – ma Garrone ha fatto bene, perché per quanto l’esasperazione di Marcello sia vera e legittima, fargli fare anche solo la metà di ciò che ha fatto il Canaro reale sarebbe stato fuori contesto, quasi kitsch, come è kitsch la pornografia della violenza al di fuori di certi film che vogliono esagerare (vedi: The Neon Demon di Nicolas Winding Refn e la necrofilia). Il regista preferisce quindi far concentrare gli attori sul dialogo dei corpi: il rapporto Simone-Marcello è innestato completamente sulla dualità uomo-cane; sino al climax tragico, Simone si rivolge a Marcello come un padrone incapace e violento, lo strattona, lo umilia ripetendo meccanicamente “non si fa” davanti al resto dei negozianti del quartiere che assistono indifferenti – proprio come tanti rimangono indifferenti alle violenze sugli animali – e lo marca fisicamente per farsi obbedire. Nel climax, Marcello inverte i ruoli: fa entrare con l’inganno Simone in una gabbia e lo schernisce, gli rivolge le stesse parole che rivolge agli animali con cui tratta ma con un’intonazione del tutto diversa – è radicalmente opposta, infatti, a quella che utilizza mentre salva una cucciola di Cavalier King messa dallo stesso Simone in un congelatore perché non intralciasse un furto con scasso. Tutta la violenza è tenuta sul piano umano: mai una volta si vede sullo schermo un animale maltrattato; e il culmine si ha quando, per il massimo dell’umiliazione, Marcello lega una catena attorno al collo di Simone, ricordando così certi collari pesanti associati a cani di grossa taglia dal temperamento problematico – cosa che Simone è, alla fine del film.

Complice l’illuminazione fredda, il salone di Marcello assomiglia talvolta a una sorta di obitorio squallido e sporco, tutta la zona circostante giace in uno stato di abbandono, com’è abbandonata l’umanità che ci vive: con le ampie panoramiche sul parchetto vicino al campo da calcio in cui Marcello e amici vengono visti giocare viene mostrata tutta la solitudine in cui Marcello sprofonda una volta compiuto l’atto. Anche se il “cattivo”, Simone, che gli altri volevano uccidere ipotizzando addirittura di ricorrere a sicari mafiosi, è stato eliminato, che cosa ha ottenuto veramente? Non è stato riabilitato, i suoi amici gli hanno voltato le spalle perché lui si è rifiutato di fare il nome di Simone davanti a un corpo di polizia disposto a tutto pur di ottenere una testimonianza contro questa figura opprimente che viene annunciata dal rombo di una moto comprata con denaro sporco, e non potrà più nemmeno riabbracciare la figlia. Ed è questo il punto su cui Garrone si concentra, lasciando forse lo spettatore insoddisfatto; la violenza di Marcello è in linea con il suo personaggio: è mirata, è decisamente poca rispetto alla controparte reale (che avrebbe seviziato la vittima in tutti i modi); Simone muore per soffocamento, quasi per caso, dopo essere stato posizionato su una strana piattaforma con la catena al collo una volta stordito da una botta in testa data per autodifesa, come se Marcello al contrario di De Negri non sapesse esattamente che fare dell’aguzzino. È una storia di vendetta perfettamente in linea col personaggio – un protagonista schiacciato da un contesto violento, ma non incline alla violenza di per sé; e forse proprio per questo fa un po’ meno paura entrare in empatia con l’idea dietro questa vendetta. E fa meno paura anche perché Garrone mostra come, alla fine della giornata – anzi all’alba della nuova, dato che il film si chiude su un cielo di latte ben più angosciante del buio della notte, perché porta con sé le conseguenze di un piano impacciato – a Marcello, che sul finale come non mai non è il Canaro, non resti che un cadavere mezzo bruciato e un peso troppo grande sulle spalle.

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