L’incredibile storia dell’Isola delle Rose: utopia di un centro sociale galleggiante

Metti una sera (anzi, una notte), Sydney Sibilia che cerca informazioni scientifiche per una scena di Smetto Quando Voglio 2. Per effetto dei tunnel di Wikipedia combinati all’insonnia, incappa in un articolo su questa misteriosa “Isola delle Rose”, un avvenimento che segnò l’estate del ’68, quando l’ingegner Giorgio Rosa dichiarò la sua personale piattaforma uno stato indipendente – dove si stampava moneta, c’erano francobolli e si parlava l’esperanto perché c’era traffico da tutt’Europa. La fine del sogno è molto meno epica di quella che Sibilia racconterà ne L’incredibile storia dell’Isola delle Rose, ma il film è un buon esempio di come la dicitura “tratto da una storia vera” e “documentario” non debbano essere per forza sinonimi.

Il Giorgio Rosa di Sibilia è un underdog fatto e finito: un ingegnere abbastanza giovane, neo-iscritto all’albo, corredato di amici dediti alla goliardia (come si evince dalla canzone introduttiva), di ex fidanzata prossima al matrimonio a cui muore dietro e di un trabiccolo costruito con le proprie mani (senza targa) che gli costa l’arresto – nonché del volto di Elio Germano. E proprio per questo, lo spettatore è immediatamente indotto a tifare per lui, anche se l’idea brillante è scatenata da una battuta non propriamente riuscita. Germano è affiancato dalla verve di Leonardo Lidi, nel ruolo di Maurizio Orlandini, che come la maggior parte del cast principale è frutto della penna di Sibilia. Matilda De Angelis, nel ruolo del futuro avvocato Gabriella, smette per una volta i panni della turbognocca problematica in favore di un ruolo più tradizionale – che porta a casa con un certo garbo.

All’avventura di Giorgio e Maurizio si aggiungono il naufrago Pietro e la barista Franca, 19enne incinta di uno sconosciuto che simboleggia il senso dell’Isola voluta da Giorgio. La poca documentazione reale intervalla momenti per lo più romanzati per amor di racconto, e completa il quadro impreziosendolo di piccoli “trivia” che possono far piacere allo spettatore.

Ma com’è finita, davvero?

ATTENZIONE: Il testo a seguire contiene SPOILER

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[ENG] Yu-Gi-Oh! Zexal I: the importance of first impressions

Animation and marketing have always gone hand in hand, since the earliest years of cartoon series. As time passed, a need for creative and engaging storytelling emerged, and even though it’s clear that some series are born to sell a product to the viewer, the quality of the writing and the genuine care put into the artistic direction of the show makes people who weren’t (or aren’t) interested in the product gravitate towards the story in and of itself. The Yu-Gi-Oh! franchise can easily pride itself to be among the most entertaining and popular, with the advantage of creating different concept for each different installation. So, you have the ancient mysteries of the Yu-Gi-Oh! Duel Monsters original series; the goofy charm and mood whiplashes of Yu-Gi-Oh! GX; the social commentary and the gritty dystopian visuals in 5Ds. And then comes what’s considered one of the weak links in the franchise: Yu-Gi-Oh! Zexal.

Sometimes, it’s the shift from the previous series that causes fans to drift away from the series. And the leap from the adult revolutionary protagonist that is Yusei Fudou to a growing kid like Yuma Tsukumo may have been a bit to handle for some fans. But there’s far more than meets the eye.

Yu-Gi-Oh! Zexal is a two-part series that follows the story of Yuma Tsukumo, a common 13-years-old boy whose parents disappeared while travelling the world. He lives with his older sister Akari and his grandmother Haru, who love him very much, and sometimes has undecipherable dreams about the mysterious “Emperor Key” that dangles around his neck – an antique charm that was bestowed upon him by his father. Yuma’s life is mostly comprised of school shenanigans, duelling and fooling around. But one day, when his friend Tetsuo gets bullied by known delinquent Ryouga “Shark” Kamishiro, Yuma steps in and something magical happens.

But is this all? Definitely not. And it doesn’t even take all that many episodes to find out.

WARNING: SPOILERS AHEAD

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The Prom: non tutto il “politicamente corretto” viene per nuocere

Ryan Murphy è quel genere di regista ce sa essere o incredibilmente consapevole dei suoi limiti o tristemente ignaro (esempio: i quintali di bifobia gratuita in Glee, mai del tutto superati o trasformati in un arco narrativo costruttivo). Con The Prom sembra sia il primo caso, complice l’essere parzialmente sollevato dalla responsabilità del materiale originale; si tratta infatti dell’adattamento dell’omonimo musical del 2016, scritto tra gli altri da Chad Beguelin e Bob Martin, che si sono occupati anche della sceneggiatura del film.

The Prom segue la vicenda di quattro star fallite di Broadway: Dee Dee Allen (Meryl Streep) e Barry Glickman (James Corden), freschi di stroncatura da parte dei critici del New York Times per la resa poco generosa al debutto del musical Eleanor!; Trent Oliver (Andrew Rannels), diplomato alla Juilliard che passa la vita dietro il bancone di un elegantissimo bar a plasmare cocktail e rosicare tantissimo perché il pubblico lo ricorda per il suo ruolo in una sitcom e nient’altro; infine, Angie Dickinson (Nicole Kidman), corista che sogna il ruolo di Roxie Hart di Chicago. I quattro, durante un’uggiosa e deprimente serata alcolica, incappano in una notizia terribile: in un orrendo buco dell’Indiana, l’Associazione dei Genitori del paesino ha boicottato la festa scolastica di fine anno perché una ragazza, Emma (Jo Ellen Pellman al suo debutto in un film), vorrebbe portare la sua ragazza.

È il punto di svolta: come operazione pubblicitaria, in un’era in cui la morale è sospesa tra l’adesione al “politicamente corretto” e una vera necessità di riconoscere i diritti delle minoranze oltre il contentino per pulirsi la reputazione, i quattro decidono di organizzare un’incursione in Indiana per dare ad Emma la sua festa di fine anno e tornare alla ribalta. Intanto, Emma deve conciliare le attenzioni indesiderate con un altro peso: quello di dover nascondere l’identità della sua ragazza.

ATTENZIONE: Il testo a seguire contiene SPOILER

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Mank: di cosa parliamo, quando parliamo di Hollywood

La vecchia Hollywood assomiglia sempre più ad un rifugio per peccatori, per quanto riguarda i registi statunitensi. L’assenza di una mitologia ha portato molti autori nordamericani a crearla in uno specifico gruppo di persone – o nei fumetti; dunque, il “mito” della Hollywood in bianco e nero continua a vivere attraverso le sue numerose rappresentazioni, veritiere o meno che siano. Ma qualunque storia può essere raccontata come se fosse un mito. David Fincher ha ricevuto in eredità lo script di Mank dal padre Joseph, morto nel 2003 dopo una carriera da critico cinematografico e una breve parentesi da sceneggiatore. Il progetto è rimasto in sospeso per una ventina d’anni, lasciato decantare come un liquore.

È arrivata la mano invisibile di Netflix, che sta accogliendo nelle sue scuderie una schiera sempre più nutrita di registi a metà tra l’acclamazione del pubblico (oltre che della critica) e la nicchia autoriale. Fincher s’inserisce con grazia in quest’alcova, con il secondo progetto in bianco e nero battezzato dal colosso dello streaming. Mank racconta la meta-storia di Herman J. Mankiewicz e dell’epopea che fu la sceneggiatura di Quarto Potere (Citizen Kane); il ruolo del protagonista titolare è affidato a Gary Oldman, che qui si cala nei panni del genio problematico che osserva la realtà e attinge ad essa – non c’è nulla che accade sullo schermo che non sia funzionale al trionfo, documentato dall’audio reale di Orson Welles. La vicenda della paternità della sceneggiatura in sé non viene toccata, essendo successiva alla realizzazione del film: Fincher traccia il ritratto di una grande mente che vive sul confine tra realtà e fiction. Come tutti gli autori, d’altronde.

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Caleb: un sogno goth all’italiana

L’Italia ha un potenziale gotico non sfruttato. Borghi antichi di poche centinaia d’abitanti che assomigliano a città fantasma quando cala la sera, castelli, centri storici che sembrano esistere fuori dal tempo – sono tutte ambientazioni perfettamente credibili per storie dell’orrore. Questo terreno è stato sondato dal team di Roberto D’Antona in Caleb, film disponibile sulla piattaforma Prime Video, che ha avuto il tempo di uscire in alcune sale selezionate lo scorso agosto.

D’Antona dirige, scrive e interpreta una storia horror molto classica: il film segue le vicende di Rebecca Leone (Annamaria Lorusso), giornalista in gamba sulle tracce della sorella scomparsa da tre mesi. Il suo percorso la porterà nel borgo di Timere, località ai confini con la Svizzera misteriosamente cancellata da ogni mappa, popolata da volti ben poco amichevoli e con una coltre perenne di nebbia ad avvolgerla. Lì, Rebecca fa la conoscenza di Gaspare (Francesco Emulo) e Marta (Natalia Moro), due turisti capitati lì quasi per caso, altrettanto straniti dall’atmosfera che si respira in città. Ad attenderla c’è la figura del misterioso Caleb (Roberto D’Antona), amato alla follia dagli abitanti del luogo – un uomo elegante, appassionato di teatro, che nasconde un tremendo segreto.

Caleb calca sentieri abbastanza noti del genere, concedendosi qua e là qualche citazione e qualche sperimentazione tecnica interessante per ravvivare una sceneggiatura lineare, che segue i canoni delle storie horror. Contrariamente a quanto si possa pensare, l’ambientazione italiana è tra i punti di forza del film.

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Ernesto: come si vive al di qua della Gen Z

Che cos’è l’adolescenza? Man mano che ci si allontana, diventa sempre più complessa da definire. E allora, si apre l’album dei ricordi della mente e si inizia a sfogliarlo – o forse, se si è più fortunati, si possono davvero scorrere delle istantanee di quel periodo. Il film Ernesto, scritto a quattro mani dal duo Alice De Luca & Giacomo Raffaelli, si snoda attorno ad un principio simile.

La narrazione segue in tempo reale la vita di Ernesto (Federico Russo), liceale al suo ultimo anno, che si muove tra teatro, scuola, amici, relazioni che si chiudono con un taglio netto ed altre che nascono, fantasticherie e scoperte. Il film non ha un filone lineare che stabilisce un punto “A” per arrivare ad un punto “B” secondo l’ordine degli elementi disposti dagli autori; è un tipo di narrativa che sembra imitare lo scorrere del tempo filtrato attraverso il ricordo e l’immaginazione.

È la Gen Z raccontata da sé, con onestà: De Luca e Raffaelli, infatti, hanno scritto il film proprio durante l’ultimo anno di liceo, periodo fortemente mistificato nell’immaginario collettivo – un periodo che simboleggia il passaggio dall’adolescenza al mondo esterno (perché la vita adulta è ancora lontana). Anche gli altri partecipanti al progetto, con poche eccezioni, sono under 25: dal cast principale al compositore dell’essenziale colonna sonora che compare tra un lungo intervallo di silenzio e l’altro.

Sin dal trailer, lo spettatore è accompagnato per mano in un’atmosfera di sogno: un ragazzo e una ragazza, nell’intimità di una cameretta illuminata da luci poco costose e da una stringa di luci di Natale, di quelle che si comprano da Tiger, danzano e si scambiano sguardi complici. Il turbinio quasi inintelligibile di immagini che si sovrappongono a quel momento rende l’idea dei pensieri e dei ricordi che si mescolano e si confondono nella testa del protagonista. La mente umana lavora per immagini non perfettamente logiche, e lo stesso fa Ernesto.

ATTENZIONE: Il testo a seguire contiene SPOILER

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