Mank: di cosa parliamo, quando parliamo di Hollywood

La vecchia Hollywood assomiglia sempre più ad un rifugio per peccatori, per quanto riguarda i registi statunitensi. L’assenza di una mitologia ha portato molti autori nordamericani a crearla in uno specifico gruppo di persone – o nei fumetti; dunque, il “mito” della Hollywood in bianco e nero continua a vivere attraverso le sue numerose rappresentazioni, veritiere o meno che siano. Ma qualunque storia può essere raccontata come se fosse un mito. David Fincher ha ricevuto in eredità lo script di Mank dal padre Joseph, morto nel 2003 dopo una carriera da critico cinematografico e una breve parentesi da sceneggiatore. Il progetto è rimasto in sospeso per una ventina d’anni, lasciato decantare come un liquore.

È arrivata la mano invisibile di Netflix, che sta accogliendo nelle sue scuderie una schiera sempre più nutrita di registi a metà tra l’acclamazione del pubblico (oltre che della critica) e la nicchia autoriale. Fincher s’inserisce con grazia in quest’alcova, con il secondo progetto in bianco e nero battezzato dal colosso dello streaming. Mank racconta la meta-storia di Herman J. Mankiewicz e dell’epopea che fu la sceneggiatura di Quarto Potere (Citizen Kane); il ruolo del protagonista titolare è affidato a Gary Oldman, che qui si cala nei panni del genio problematico che osserva la realtà e attinge ad essa – non c’è nulla che accade sullo schermo che non sia funzionale al trionfo, documentato dall’audio reale di Orson Welles. La vicenda della paternità della sceneggiatura in sé non viene toccata, essendo successiva alla realizzazione del film: Fincher traccia il ritratto di una grande mente che vive sul confine tra realtà e fiction. Come tutti gli autori, d’altronde.

ATTENZIONE: Il testo a seguire contiene SPOILER

Ben lontano dal bianco e nero nitido di Roma di Cuaron, il mondo di Mank (personaggio) ha la filigrana e la composizione scenica dei film realizzati a cavallo tra gli anni ’30 e i ’40. C’è tutto: l’abbigliamento elegante, le indicazioni temporali battute a macchina da scrivere, l’ombra della grande depressione e l’eco distante della guerra appena iniziata in Europa. Ma soprattutto, c’è questo protagonista titanico che scrive un capolavoro in “smart working”, in una residenza forzata in cui viene spedito per riprendersi da un brutto incidente d’auto – mostrato fuori dall’ordine cronologico, in un flashback in cui è in auto con il fratello Joseph (regista, tra gli altri, di Eva contro Eva). I confini della realtà tendono a sfumare lievemente quando si affrontano lunghi periodi d’isolamento – e quando si è giusto un po’ alcolisti, come Mank – ed è proprio quello che accade al protagonista: i fantasmi del passato salgono sulle spalle dello spettro della deadline e diventano sia il rumore di sottofondo nella mente dell’autore, sia la maggior fonte d’ispirazione.

Mank è accompagnato dalla segretaria Rita Alexander – una Lily Collins sobria ed elegante che riesce pienamente a reggere il ritmo di Oldman -, con cui instaura un rapporto d’amicizia basato sull’infinita pazienza di lei e sulla voglia di scherzare di lui. Da un personaggio della vecchia Hollywood ci si potrebbe aspettare una serie di amori torbidi e caotici, invece Fincher sembra voler insistere sulla parte più pura dei rapporti con le donne da cui prende ispirazione – tant’è che la moglie di Mank arriva a definire le amicizie femminili di lui “scappatelle platoniche”. Anche l’attrice Marion Davies (Amanda Seyfried), su cui sarà basata la protagonista femminile di Quarto Potere, è più un’anima affine che una potenziale amante, nonostante non manchi della tensione palpabile accentuata dai dialoghi freschi ed incalzanti, che danno ritmo ad una narrazione che rischierebbe altrimenti di essere poco avvincente.

Un altro elemento affascinante è la presenza-assenza di Orson Welles, una scelta astuta che sembra voler indirizzare lo spettatore ad entrare in empatia con il narratore inaffidabile a cui è affidato il racconto. Welles compare molto poco, pur essendo l’antagonista principale nella vita di Mankiewicz – almeno, nel contesto del film. Sono per lo più i suoi messaggeri (involontari e non) a sussurrare all’orecchio di Mank perché rinunci; ma lui ha la testa dura, e scrive lo stesso. Per fortuna.  

La struttura temporale di Mank, con i suoi salti temporali bruschi, non è soltanto indicativa del flusso di pensiero del protagonista ma è legata a doppio filo alla rivoluzionaria tecnica utilizzata in Quarto Potere. Questi cambi risultano particolarmente efficaci nel climax del film, ovvero la scena in cui Mank si mette in imbarazzo durante un party del magnate William Randolph Hearst, che ispirerà il protagonista del film. Il monologo su Don Chisciotte, oltre a caratterizzare Mank come personaggio colto e capace di riflessioni acute sul rapporto tra la letteratura e l’utilizzo che ne fanno gli autori successivi, è una metafora di tutta l’industria del cinema.

Andando più in profondità del coloratissimo predecessore Ave, Cesare! dei fratelli Coen, Mank traccia un ritratto poco lusinghiero, ma più digeribile della realtà della vecchia Hollywood. Sono del tutto assenti l’ombra delle discriminazioni razziali (forse perché il protagonista, bianco, non ne subisce), così come la politica estera assomiglia ancora ad un sussurro lontano. E del resto, Pearl Harbour accadrà nel 1941.

Mank è una visione che richiede concentrazione, se non altro per tener conto di tutti i salti e dei riferimenti reali e non. Che si sia appassionati della Hollywood dei tempi d’oro o dei neofiti amanti del cinema, è una buona storia personale che ha trovato in mezzi contemporanei una realizzazione che forse in precedenza non avrebbe avuto.

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