Il ritorno di Mary Poppins, ovvero una ricetta magica per affrontare la realtà

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Poteva essere l’ennesimo spreco di soldi in casa Disney. Poteva essere un musical tiepido, senza emozioni, noioso e didascalico – e invece hanno chiamato Rob Marshall a dirigerlo. Alla sua terza collaborazione con la casa della malvagia pantegana capitalista, Marshall dirige Il ritorno di Mary Poppins, altra uscita miracolosa dal development hell, e se non ci riporta al 1965 (ma non era necessario) ci regala un giro spettacolare sulle montagne russe.

Il film è l’adattamento cinematografico del vero sequel di Mary Poppins e narra la storia dei giovani Banks, ora adulti, alle prese con le conseguenze della Grande Depressione. L’anno è il 1930 e Michael Banks è un padre vedovo con tre figli a carico e un impiego part-time in banca che basta a malapena per crescerli – per questo motivo, troviamo dei bambini ben più consapevoli e autosufficienti rispetto a quelli del primo film, i cui problemi più grandi erano la mancanza di disciplina e la poca comunicazione con genitori troppo presi dal sé. Le lezioni del primo film non sono state dimenticate: nonostante il multitasking non sia esattamente il suo forte, Michael Banks si occupa in prima linea dei suoi figli, chiede loro scusa se alza la voce fuori contesto, anche quando ha tutte le ragioni di essere stressato; inoltre, ha un rapporto sano e sincero con la sorella Jane, politicamente impegnata come la madre.

Il motivo del ritorno di Mary Poppins, stavolta, ha un sapore decisamente diverso rispetto al primo film, il che lo rende forse più semplice da accostare a Pomi d’ottone e manici di scopa (rilevante comunque per il discorso per un motivo di cui parlerò più sotto), che pure parlava di ritrovare un senso di innocenza intatto in uno scenario tragico. L’atmosfera gioiosa e colorata del primo film si arricchisce qui della sfumatura dell’escapismo – non quello in cui ci si chiude per ignorare il mondo esterno (come dice una delle canzoni del film), ma quella gioia in cui si può trovare la forza di far fronte a ciò che accade. In questo senso, è un film più maturo e complesso del primo, senza però compromettere la natura del personaggio di Mary Poppins o quella della storia, facendo anzi un salto di qualità.

Il modo in cui Rob Marshall ci accompagna per mano, tramite la figura dell’acciarino Jack (uno straordinario Lin-Manuel Miranda), in una Londra dai colori più freddi di quella del primo film rende ancor più l’idea della partenza per un viaggio che rivoluzionerà il punto di vista dei personaggi (in maniera letterale e non) – in modo simile, se proprio vogliamo indulgere nel meme, alla presentazione dell’ennesima incarnazione del Dottore.

ATTENZIONE: Il testo a seguire contiene SPOILER

Emily Blunt, con la sua bellezza un po’ austera, ha preso sulle spalle il compito veramente ingrato di ricevere il testimone da Julie Andrews (che per giustizia si è rifiutata di comparire nel film). La sua Mary è senz’altro diversa da quella del primo film, ma bisogna tener conto anche del contesto: nel sequel è addirittura meno protagonista, ma perché è giusto che sia la famiglia Banks a fare il proprio percorso, e perché si suppone che lo spettatore sappia già bene chi è lei e di cosa sia capace. Mary ritorna perché mai come nel momento presentato la famiglia Banks ha bisogno di ritrovare la meraviglia genuina – che i bambini rischiano di perdere troppo presto per via del lutto gravissimo subìto – per potersi rialzare più forte ed unita di prima.

Michael e Jane non accolgono Mary con scetticismo, nonostante non siano certi che le avventure vissute fossero realtà, e le affidano i figli perché grati degli insegnamenti ricevuti al di là dei viaggi nei mondi animati. Il conflitto, infatti, non viene in questo film dalla cerchia interna dei protagonisti – anche se i bambini sono più scettici dei genitori all’idea di avere una tata – bensì dall’esterno: la minaccia vera è la crescente pressione fiscale che rischia di far finire la famiglia Banks in mezzo alla strada, e il direttore della banca (Colin Firth), rappresentato letteralmente come un “lupo” nelle fantasie premonitrici dei ragazzi.

Anche la presenza di un villain contribuisce a dare al film un senso di organicità nella scrittura, che contribuisce a non renderlo una copia carbone del primo e sottolinea ulteriormente la necessità di un atteggiamento positivo quando ciò che ci colpisce sembra troppo più grande di noi. C’è forse un senso di distacco tra realtà e fantasia più netto, qui, che rende le sequenze fantastiche ancor più degne di nota.

E proprio su quelle c’è da fare un discorso a parte. Passo indietro necessario: Rob Marshall, per la Disney, ha già diretto il musical Into the Woods attingendo da Broadway – che è esattamente dove ha cominciato. Il regista nasce infatti come coreografo per Victor/Victoria, e porta questa sua conoscenza nel pluripremiato Chicago, i cui echi si fanno sentire tutti in positivo, e nel dibattuto Memorie di una Geisha, dove è riuscito a scomodare perfino il teatro No per la memorabile scena della Danza della neve. Gli echi di Chicago, in particolar modo, sono palpabili nel numero A Cover Is Not The Book, quello nel mondo del vaso di porcellana, durante il quale Mary Poppins sale su un palco assieme ad un corpo di ballo animato (in un 2D moderno che ha dell’incredibile) con in testa la parrucca di Velma Kelly. Nello stesso numero è co-protagonista Jack l’acciarino; il fatto curioso è che anche lo stesso Lin-Manuel Miranda è stato pescato direttamente da Broadway, e in questa sequenza ha un pezzo rap. Il musical per cui l’attore è più noto – avendolo scritto, diretto e interpretato – è Hamilton, che ha come caratteristica principale proprio il fatto di essere quasi completamente rap.

Un ulteriore contributo alla qualità della sequenza, al di là della pulizia delle animazioni dei personaggi che popolano questo piccolo mondo, è dato qui senz’altro dai costumi (che spero non passino inosservati in termini di riconoscimenti): tutto il cast reale indossa abiti eleganti, esattamente come nel primo film, colorati a pennellate grezze come in quegli esperimenti di body painting ispirati ai quadri – o, più semplicemente, come in Loving Vincent.

Rob Marshall sfrutta qui al meglio una peculiarità dell’attore che dà al film un quid che gli permette di reggere gli inevitabili paragoni col primo (infatti l’intera sequenza viene paragonata a Supercalifragilistichespiralidoso); per quanto riguarda la spettacolarità del ballo, invece, Marshall dà il meglio di sé in termini di direzione artistica nella sequenza della canzone Trip A Little Light Fantastic, il numero musicale degli acciarini.

Marshall non si accontenta di accompagnare lo spettatore in un tour di certi angoli di Londra un po’ bui, ma porta direttamente Broadway su pellicola con un’attenzione alla composizione scenica quasi maniacale, una gestione dei tempi calibrata al millisecondo e gli acciarini che fanno i trick con le biciclette. In un film musicale, la direzione artistica gioca un ruolo ancor più decisivo che in un qualsiasi film “standard” dal punto di vista dello storytelling: con l’aiuto del fidato direttore della fotografia Dion Beebe, che lo accompagna dai tempi di Chicago e che per Memorie di una Geisha ha avuto anche il riconoscimento dell’Academy, Marshall (che qui è anche coreografo) riesce a catapultare lo spettatore su questa giostra bizzarra popolata da personaggi al confine tra fantasia e realtà. L’autoreferenzialità non infastidisce perché è qui resa funzionale ai numeri musicali – che in alcuni punti ricordi un po’ Chicago è irrilevante, se pensiamo che le coreografie sono un perno così importante del film, e portare una parte di sé in un contesto (quello della Disney) che può depersonalizzare è più che giusto.

E non accontentandosi di stare già così vicino all’eccellenza, l’asticella viene spinta ancora più in alto con i camei stellari di cui il film è punteggiato costantemente: Meryl Streep, co-protagonista in Into the Woods, anche qui personaggio eccentrico e coloratissimo; Angela Lansbury, lanciata al cinema proprio con Pomi d’ottone e manici di scopa, che anche qui interpreta un personaggio un po’ magico (forse un cameo che toccava alla stessa Julie Andrews) e infine l’inimitabile Dick Van Dyke, che riprende il ruolo iconico del vero direttore della banca e alla veneranda età di 93 anni è molto più agile e arzillo del venticinquenne medio, con la sua andatura cartoonesca e le gambe quasi a molla.

Non mancano, naturalmente, le sequenze commoventi: il tema del lutto non è messo da parte, anzi, è affrontato in maniera tenera come si dovrebbe spiegare a un bambino – ma anche ad un adulto che si sente perso e schiacciato dal caos che uno scossone del genere invariabilmente provoca. Il film fa di tutto per sottolineare la necessità della positività e della gioia, del contatto con gli altri, e l’importanza di lottare per gli obiettivi che ci si prefissa fino all’assurdo. Niente di tutto questo viene presentato come un insegnamento, ma raccontato come una parte naturale della vita – ed è proprio qui la potenza della storia.

L’arrivederci a Mary Poppins del primo film è dolceamaro, perché rappresenta la chiusura di una parentesi gioiosa ma si presuppone proseguirà in senso positivo; qui la commozione è ancora più grande, perché i problemi della famiglia Banks non scompariranno con l’arrivo della primavera (che, come canta Mary, è sempre nascosta sotto la neve), ma forse riusciranno a guardarli da un’altra prospettiva. Non si sa se Mary Poppins avrà ancora bisogno di ritornare, ma intanto questa seconda missione sembra essere perfettamente riuscita.

 

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