C’è qualcuno in casa tua: la callout culture, quella vera, uccide

In principio furono Carpenter e Craven, fu il genere home invasion, ma soprattutto fu la saga di Scream negli anni ’90, che una fetta statisticamente rilevante di pubblico ricorda per la versione parodistica in Scary Movie oltre che per l’originale. C’è qualcuno in casa tua è un mix sperimentale di tutto questo: Patrick Brice (Creep) adatta l’omonimo romanzo del 2017 di Stephanie Perkins e segue le vicende di Makani Young, ragazza hawaiiana trapiantata a casa della nonna in una cittadina nel cuore del Nebraska, uno di quei paesotti con una sola scuola superiore circondati da quei campi di mais perfetti per un inseguimento drammatico alla fine di un film horror, e le villette poste a centinaia di metri, se non qualche chilometro l’una dall’altra perché negli Stati Uniti non c’è un concetto di comunità a meno che non si parli di vicinato o di quartieri, dai quali comunque ci si muove solo in auto perché il massimo del trasporto pubblico esistente è lo scuolabus sul quale dozzine di adolescenti si riversano senza particolare voglia di vivere.

A cavallo del diploma, strani eventi iniziano a verificarsi in città: un killer inizia a prendere di mira alcuni allievi della scuola che nascondono segreti orrendi — come il quarterback omofobo che viene ucciso per primo, ironia della sorte, nella cabina armadio di casa sua. La sua particolarità è la maschera che indossa: una riproduzione del volto della vittima, a sottolineare l’ipocrisia di nascondersi dietro lo status per fare del male a qualcuno. Insomma, l’eco della callout culture risuona e si trasforma in qualcosa di letale… solo che prende di mira chi fa del male ad altri. Intanto, nel caos, Makani dovrà tenere ben riposti i suoi segreti: un passato tragico e una relazione atipica.

ATTENZIONE: Il testo a seguire contiene SPOILER

C’è una certa idea di giustizia che si basa interamente sulla retribuzione. È la giustizia dei social media, luoghi in cui le persone sono disposte a scavare in anni ed anni di Tweet o post Facebook per trovare contenuti problematici. A volte si costruiscono polveroni sul nulla, ma altre volte si trovano reperti interessanti, come un episodio di un podcast neonazista la cui speaker lavora per la chiesa locale, come accade nel film.

Se i primi due omicidi in C’è qualcuno in casa tua possono sembrare motivati da una sorta di giustizia da vigilante, man mano che i minuti trascorrono ci si trova davanti ad un killer che prende di mira soggetti sempre più lontani dal “cattivo tipico”: uno studente messicano che si imbottisce di antidolorifici e, sebbene non ci riesca, la stessa Makani, che quando viveva alle Hawaii si è ribellata alle bulle che l’hanno presa di mira spingendone una in un falò – pur non avendo ucciso la ragazza, Makani soffre ovviamente di sensi di colpa e stress post-traumatico.

Tra i punti deboli del film c’è il suo non discostarsi dagli stilemi del genere slasher, ma sembra quasi che la storia estremamente lineare finisca per essere un contorno attorno ad una riflessione importante sulla callout culture e sui confini estremamente nebulosi tra il chiedere giustizia, pretendendo che le persone che fanno male ad altri si prendano le proprie responsabilità, e il bullismo vero e proprio contro persone appartenenti a minoranze, sulla base del nulla. Nella questione di Makani interviene anche l’elemento del diritto all’oblio, ovvero il diritto a che le notizie di azioni criminali di un singolo vengano oscurate sul web una volta completato il decorso del processo. Ma i social media sono l’ambiente più adatto alla proliferazione di campagne d’odio prolungate – proprio in questi giorni, e per i mesi precedenti, un membro dell’industria dell’animazione statunitense deve costantemente difendersi da attacchi esterni dopo essere stato licenziato a causa di determinati contenuti artistici che teneva nascosti su un profilo Twitter privato proprio perché cosciente del fatto che fossero controversi. Si tratta di una persona queer e vittima di abusi che deve difendersi come se avesse commesso crimini reali, e che si è vista portar via una sicurezza economica in un periodo di forte crisi globale per futili motivi.

Non è un caso che il killer di C’è qualcuno in casa tua finisca con l’essere il ragazzino bianco privilegiato, figlio di un magnate che adora reliquie naziste, per quanto cerchi esplicitamente di discostarsi dando una festa in cui tutti sono invitati ad ammettere qualche segreto scioccante così che il killer non possa usarli come arma. La cultura del callout è intrinsecamente legata al privilegio, perché il risultato cambia a seconda di chi lo subisce: se la vittima è una persona privilegiata, le conseguenze saranno minime a prescindere dal contesto; ma se si tratta di persone queer, non bianche, neurodiverse, la prospettiva si altera. Il killer prova a spingere la colpa su un ragazzo neurodiverso perché è molto più comodo credere che il male abbia un “look”, che sia distinguibile a colpo d’occhio; è sicuramente molto più rassicurante di pensare di doversi guardare costantemente le spalle perché non si conosce realmente chi si ha accanto.

C’è qualcuno in casa tua, al netto delle debolezze strutturali come la mancanza di un reale movente da parte del killer o un approfondimento psicologico degno di nota, così come il finale sostanzialmente vuoto, è un buon punto di partenza per riflettere su una cultura che non esiste così come intesa dalla destra, con i piagnistei à la “non si può più dire nulla”, ma che quando entra in azione è fomentata da un’idea distorta di cosa è giusto e cosa no, dall’incredibile complesso di onnipotenza dato dall’anonimato (come dimostra anche la vicenda del blog Your Fave Is Problematic) e colpisce chi è già emarginato dalla società.

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