L’apparenza delle cose: elegia funebre fuori dal tempo

La campagna è inquietante per definizione. Le piccole comunità che sorgono nel nulla sono legate da segreti che tutti conoscono, ma che per istinto di autoconoservazione cercano di ignorare finché non emergono dalla terra (o dai muri), mostrandosi nel loro orrore. Forse sono solo i più giovani ad essere risparmiati, perché quando certe cose avvengono non sono grandi abbastanza da capirle. È questa l’atmosfera che si respira in L’apparenza delle cose, diretto da Shari Springer Berman e Robert Pulcini e basato sull’omonimo romanzo di Elizabeth Brundage. È la storia di Catherine (Amanda Seyfried), restauratrice d’arte affetta da un disturbo alimentare che insieme al marito George (James Norton) si trasferisce in un paesino remoto dello stato di New York, lontana dal comfort della casa di Manhattan. Il trasferimento pesa sulla figlia Franny, che viene tormentata da incubi. Quasi segregata in casa, Catherine inizia ad avvertire delle presenze che iniziano a guidarla verso i misteri della casa. Il film non è soltanto una ghost story a tinte gotiche ambientata negli anni ’80 – non quelli di Stranger Things (nonostante nel cast ci sia Natalia Dyer) dove tutti sono vestiti miracolosamente bene e sembrano usciti da un catalogo di moda, ma quelli delle comunicazioni lente, dell’isolamento e dell’omofobia – ma una riflessione sulle dinamiche di potere all’interno di una coppia, sulla solitudine a cui le donne vengono costrette quando non hanno attorno una comunità che le supporti pienamente, e sulla tendenza ad insabbiare le cose pregando che riemergano quando ormai chi le ha sepolte è passato a miglior vita. E spesso non sono “cose” ad essere insabbiate, ma storie, persone che non hanno potuto difendersi o non ne hanno avuto la possibilità.

ATTENZIONE: Il testo a seguire contiene SPOILER

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