L’avanzamento problematico dell’intelligenza artificiale è un argomento inflazionato nel genere fantascientifico, soprattutto se i protagonisti della vicenda sono robot. Non sembra essere cambiato molto dai tempi di Isaac Asimov e delle sue tre leggi, se non qualche infrazione delle stesse a discrezione del singolo autore, ma il lavoro fatto in I am mother cerca di andare al di là delle dicotomie e dei semplicismi in cui è semplice cadere quando si maneggia un genere. Il film, una produzione australo-americana presentata al Sundance Festival a gennaio di quest’anno ed arrivata su Netflix lo scorso 11 giugno, segue la storia di un robot chiamato Madre che in 24 ore crea un essere umano da un embrione criogenizzato. La piccola, che per tutta la durata del film verrà chiamata Figlia, ha soltanto questo robot come punto di riferimento e sembra crescere serena, ben istruita, nutrita, amata e protetta da un mondo esterno che potrebbe essere mortale per lei.
Tutto scorre con serenità finché la figlia, ormai adolescente, non inizia a porsi altri dilemmi morali oltre a quelli sottoposti dalla Madre. L’arrivo di una donna dal mondo esterno (interpretata da Hillary Swank) rimescolerà completamente le carte sia per la Madre che per la Figlia.
ATTENZIONE: Il testo a seguire contiene SPOILER (menzione di The Promised Neverland) Continua a leggere