I am mother: se l’umanità merita un’altra chance

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L’avanzamento problematico dell’intelligenza artificiale è un argomento inflazionato nel genere fantascientifico, soprattutto se i protagonisti della vicenda sono robot. Non sembra essere cambiato molto dai tempi di Isaac Asimov e delle sue tre leggi, se non qualche infrazione delle stesse a discrezione del singolo autore, ma il lavoro fatto in I am mother cerca di andare al di là delle dicotomie e dei semplicismi in cui è semplice cadere quando si maneggia un genere. Il film, una produzione australo-americana presentata al Sundance Festival a gennaio di quest’anno ed arrivata su Netflix lo scorso 11 giugno, segue la storia di un robot chiamato Madre che in 24 ore crea un essere umano da un embrione criogenizzato. La piccola, che per tutta la durata del film verrà chiamata Figlia, ha soltanto questo robot come punto di riferimento e sembra crescere serena, ben istruita, nutrita, amata e protetta da un mondo esterno che potrebbe essere mortale per lei.

Tutto scorre con serenità finché la figlia, ormai adolescente, non inizia a porsi altri dilemmi morali oltre a quelli sottoposti dalla Madre. L’arrivo di una donna dal mondo esterno (interpretata da Hillary Swank) rimescolerà completamente le carte sia per la Madre che per la Figlia.

ATTENZIONE: Il testo a seguire contiene SPOILER (menzione di The Promised Neverland)  Continua a leggere

Anon: un titolo, un programma

Restando nel regno del cyber thriller, questa settimana torniamo sul genere di Minority Report e Person of Interest con Anon, una produzione Netflix firmata Andrew Niccol (sceneggiatore di The Truman Show) con protagonisti Clive Owen e Amanda Seyfried. Il film segue le vicende dell’agente Sal Frieland, tipico poliziotto da noir tutto trench, whiskey e sigarette con il bonus della vicenda familiare travagliata, che si ritrova invischiato nella rete di un super hacker; la caratteristica interessante del caso è che è calato in un’ambientazione d’immediato futuro in cui la tecnologia ha fatto progressi tali da poter consentire l’invio alle persone – e in particolare a chi lavora per le forze dell’ordine – di un flusso di dati continuo su tutto ciò che le circonda. Visivamente, il tutto è reso in maniera decisamente interessante: lampeggiano scritte in sovrimpressione, vengono identificati dei marchi noti, e l’accesso ai dati altrui viene mostrato attraverso dei filmati in prima persona; in questo modo ci si può muovere non soltanto all’interno dei propri ricordi, come nel famoso episodio di Black Mirror (quello con Jodie Whittaker in tempi non sospetti), ma anche all’interno della mente altrui, trattata in tutto e per tutto come un computer.

Naturalmente, un qualsiasi sistema tecnologico nato e sviluppato per garantire il comfort e la sicurezza dei cittadini, è fallibile. Il film non vuole insistere sulle ragioni etiche dietro la labilità del confine, ma preferisce restare sul gioco di scaltrezza dell’hacker, che sfugge nascondendosi nel punto cieco tra il reale e il tecnologico; scelta saggia, visto il tenore generale della pellicola.

ATTENZIONE: Il testo a seguire contiene SPOILER

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