Marriage Story: perché l’amore non basta mai?

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Il titolo non è fuorviante: Marriage Story è veramente una storia d’amore. È la storia di un amore logorato da una routine che, per quanto atipica, è pur sempre alienante. È la storia di due professionisti, uno dall’ego troppo ingombrante e l’altra disposta a troppo pur di mantenere la pace – un regista e un’attrice, come vuole la tradizione dei drammi newyorkesi. È la storia di una famiglia relativamente felice che letteralmente si spacca e naufraga sulle coste opposte degli Stati Uniti.

Nell’ultimo film di Noah Baumbach, che prima della grande corsa ai premi dell’Academy ha debuttato a Venezia 76, Charlie (Adam Driver) e Nicole (Scarlet Johansson) ripercorrono il lento spegnersi del loro amore. Lei, con il supporto goffo e sgangherato della famiglia, decide per il divorzio nel momento in cui le viene offerto un ruolo di spicco in una serie televisiva a Los Angeles. Il vero nodo caldo della questione è il figlio Henry, di otto anni, molto legato ai due genitori.

Il film è approdato su Netflix lo scorso 6 dicembre, dopo un rapido giro in sale selezionate (la distribuzione italiana, in particolare, è stata ridicola con solo 17 cinema maldistribuiti sul suolo nazionale). Alla sua breve sosta sul grande schermo è legata una storia curiosa: è il film che ha fatto riaprire il Paris Theatre, l’unico cinema monosala sopravvissuto nella Grande Mela, dopo l’improvvisa chiusura dello scorso agosto. Inoltre, è fresco di ben cinque nomination ai Golden Globe.

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Always be my maybe: quella volta che ho dato un pugno a…

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Se nelle produzioni appartenenti ad uno specifico genere Netflix se la cava meglio con le serie, con i film romcom se la cava piuttosto bene. Dopo To all the boys I’ve loved before e la hit della Warner Bros Crazy Rich Asians, Always be my maybe (disponibile su Netflix con il titolo Finché forse non vi separi, traduzione che per quanto efficace non apprezzo particolarmente) fa parte del filone delle commedie sentimentali con protagonisti asiatici-americani; il comparto tecnico è sotto la guida di una regista iraniana-americana, Nanhatchka Khan, che ha lavorato ad alcuni episodi di Malcolm in the Middle agli inizi della sua carriera ma è meglio nota per la serie Non fidarti della str***a dell’interno 23.

La storia segue le vicende di Marcus (Randall Park, maggiormente noto per il ruolo di Kim Jong-un in The Interview) e Sasha (l’attrice e stand-up comedian Ali Wong) da un periodo di tempo che va dal 1996, quando i due erano alle medie, al 2019. I due crescono sostanzialmente insieme, finendo col diventare migliori amici, sempre di supporto l’uno all’altra soprattutto nei momenti di maggior difficoltà – i genitori di Sasha sono piuttosto assenti e Marcus subirà una grave perdita durante l’adolescenza. Questo affetto si traduce in una certa tensione romantica, che viene esplicitata in un’unica occasione ma che porta ad una rottura apparentemente definitiva tra i due nel 2003. Il passare degli anni viene riprodotto abbastanza fedelmente nell’abbigliamento: nel 1996 sono ragazzini, quindi è meno evidente, ma il modo in cui sono vestiti male nella sequenza del 2003 ricorda perfettamente quei tempi atroci per la moda.

Nel 2019, le cose sono cambiate per entrambi: Sasha è una celebrità chef sulla falsariga di Joe Bastianich, pronta a tornare a San Francisco dopo una lunga permanenza a Los Angeles per aprire uno dei suoi tanti ristoranti fusion gourmet; Marcus sta avendo successo con la band formata nell’adolescenza, ma vive ancora con il padre e lo aiuta con la sua ditta che installa condizionatori.

Veronica, la manager e miglior amica di Sasha, cerca di combinare un incontro fra lei e Marcus nella speranza che si rappacifichino, assumendo padre e figlio per installare il condizionatore nella nuova, lussuosa e tecnologica casa di Sasha.

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I am mother: se l’umanità merita un’altra chance

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L’avanzamento problematico dell’intelligenza artificiale è un argomento inflazionato nel genere fantascientifico, soprattutto se i protagonisti della vicenda sono robot. Non sembra essere cambiato molto dai tempi di Isaac Asimov e delle sue tre leggi, se non qualche infrazione delle stesse a discrezione del singolo autore, ma il lavoro fatto in I am mother cerca di andare al di là delle dicotomie e dei semplicismi in cui è semplice cadere quando si maneggia un genere. Il film, una produzione australo-americana presentata al Sundance Festival a gennaio di quest’anno ed arrivata su Netflix lo scorso 11 giugno, segue la storia di un robot chiamato Madre che in 24 ore crea un essere umano da un embrione criogenizzato. La piccola, che per tutta la durata del film verrà chiamata Figlia, ha soltanto questo robot come punto di riferimento e sembra crescere serena, ben istruita, nutrita, amata e protetta da un mondo esterno che potrebbe essere mortale per lei.

Tutto scorre con serenità finché la figlia, ormai adolescente, non inizia a porsi altri dilemmi morali oltre a quelli sottoposti dalla Madre. L’arrivo di una donna dal mondo esterno (interpretata da Hillary Swank) rimescolerà completamente le carte sia per la Madre che per la Figlia.

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Velvet Buzzsaw: tutta l’arte è un pericolo

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Presentato al Sundance Festival lo scorso 27 gennaio, approda su Netflix pochi giorni dopo Velvet Buzzsaw, l’horror satirico di Dan Gilroy con Jake Gyllenhaal. Il film prende un topos cinematografico collaudato – quello dell’opera maledetta – e lo trasla in un contesto non scontato: il mondo cinico delle gallerie d’arte.

Il regista è alla sua seconda collaborazione con Gyllenhaal (l’altra è Lo sciacallo), che per l’occasione veste i panni del critico dall’eloquente nome Morf Vanderwalt: un personaggio che parla per elaborate supercazzole e veste un po’ alla Austin Powers, ma più smart casual. La storia ruota intorno alle sue vicissitudini e a quelle di Josephina, sfortunata agente di galleria che mette le mani sullo scoop del secolo; viene a mancare nel suo condominio un misterioso uomo solitario di nome Vetril Dease. Esplorando il suo appartamento, Josephina trova decine e decine di quadri, che decide di portare in galleria perché vengano esaminati da Rhodora, la proprietaria.

Il potenziale macabro dei quadri viene immediatamente notato, quindi si opta per una mostra; successo di critica e popolarità sempre crescente. Tuttavia, come in ogni film horror che si rispetti, la diffusione delle opere porta all’apertura di un vaso di pandora che andava lasciato intatto – l’artista ha infatti un background violento, e incanalando i propri sentimenti nei quadri in qualche modo vi si è trasferito dopo la morte. Chiunque venga in contatto con le opere di Dease è destinato ad una fine orrenda, non prima di aver sperimentato i suoi stessi livelli di delirio – alcuni diventano loro malgrado parte integrante di installazioni artistiche interattive, altri scompaiono senza lasciar traccia, ed altri ancora, laddove non arriva l’opera di Dease vengono imbrogliati in altro modo. Non c’è modo di vincere.

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Cam: quanto ti serve per essere “te”?

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A partire dal boom di Black Mirror, l’interesse per il mondo cibernetico come parte di un’ambientazione al di fuori di opere di animazione di nicchia è cresciuto a dismisura. Tra gli esempi più recenti troviamo Cam, un’onesta ora e mezza di thriller a sfondo erotico dalle premesse quantomeno particolari: il film segue le vicende di Alice Ackerman (Madeline Brewer, ovvero Janine in The Handmaid’s Tale), in arte Lola, una camgirl disposta ad architettare le sceneggiate più matte per scalare le vette della classifica della piattaforma dove si esibisce; la sua è una carriera avviata, gli show sono seguiti e la sua fanbase è solida abbastanza da garantirle un guadagno tale da potersi permettere un posto tutto per sé.

La routine inusuale ma tranquilla di Alice viene sconvolta quando, dopo una performance live, nota che il suo show è in diretta live nonostante lei si sia appena svegliata. Il film si concentra, dunque, sulla ricerca della verità dietro questo misterioso doppione che interagisce con i fan e infine anche con lei, costretta a creare un secondo account per tentare di risolvere il mistero dall’interno.

Uno degli aspetti vincenti del film è sicuramente la rappresentazione della protagonista come una qualsiasi creatrice di contenuti: ha un calendario dove appunta le idee già utilizzate (e sulla primissima mostrata tornerò successivamente), ha dei prop scenici semplici da realizzare e funzionali agli show, cerca di differenziare sia gli scenari proposti che l’abbigliamento e viene mostrata mentre compra piccoli accessori da inserire nelle scene che crea. Più di altre camgirl mostrate nel film, Alice presta particolare attenzione all’ambientazione anche attraverso l’utilizzo di un’illuminazione neon che rende quasi irreale lo scenario in cui si muove – dettaglio che poi si rivelerà funzionale anche alla trama. Solitamente, le camgirl vengono presentate come vittime di sé stesse che dovrebbero imparare a volersi un po’ più bene senza vendere il proprio corpo a bavosi sconosciuti (che qui vengono comunque rappresentati come tali) che non vedono nient’altro che forme e un faccino grazioso; il punto di Cam, fortunatamente, è tutt’altro. Il fatto che Alice sia una camgirl ha importanza solo perché la fonte principale dei suoi guadagni proviene dai suoi show online, ma sarebbe potuta essere qualsiasi altra tipologia di streamer: ciò che viene sottolineato è il senso di derealizzazione che si prova a vedere la propria identità sottratta e utilizzata da altri – anche se si tratta soltanto di un “personaggio”, di un nickname.

È proprio per questo che le successive sciatterie del film risultano ancora più difficili da digerire.

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Bird Box: quando anche lo “show don’t tell” non basta

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Nelle appena scorse vacanze di Natale, l’horror Bird Box, tratto dal thriller omonimo di  Josh Malerman del 2014, ha conquistato il pubblico di Netflix e dell’internet in generale, con tutti i meme del caso. Diretto dalla regista danese Susanne Bier e con protagonista Sandra Bullock, il film segue le vicende di Malorie Hayes, pittrice incinta che vive con sua sorella Jessica (Sarah Paulson), la cui vita viene completamente sconvolta quando in città incominciano a manifestarsi delle creature sconosciute invisibili allo spettatore, che inducono i personaggi al suicidio in caso di contatto visivo.

La natura delle creature – aliena o meno che sia – non è chiara ed è giusto così: ciò che conta è il senso di disperazione e oppressione che si crea nel momento in cui bisogna barricarsi in casa e non ci si può fidare dei propri occhi o di ciò che si sente. Dopo il suicidio improvviso di Jessica, Malorie viene soccorsa da un gruppo di sopravvissuti rifugiatisi in casa di un uomo in un quartiere residenziale; dal momento in cui Malorie vi entra, il gruppo cerca di studiare escamotage di sopravvivenza plausibili per fronteggiare queste creature.

La scoperta della capacità delle creature di agire attraverso i monitor costa la vita a Greg, il padrone di casa, che si suicida dopo essere venuto in contatto con una di esse attraverso lo schermo di un computer; successivamente, il gruppo riesce addirittura a completare – non senza perdite – con successo una sortita al supermercato per rifornirsi di provviste.

Nel gruppo è presente, oltre a Malorie, un’altra donna incinta di nome Olympia; nel momento in cui le due donne entrano in travaglio, però, il gruppo incomincia a sfaldarsi per via di un elemento anomalo ammesso precedentemente, e quell’equilibrio già precario che il gruppo era riuscito a trovare con fatica si interromperà.

Il tutto viene presentato come dei flashback che intervallano il lungo viaggio di Malorie e di due bambini (la cui identità verrà chiarita successivamente) attraverso un fiume, per raggiungere quello che sembrerebbe essere un luogo di salvezza.

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Sierra Burgess is a Loser: no, la bellezza non convenzionale non ti giustifica

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Ultimamente Netflix sta cavalcando l’onda del teen drama atipico, e ne abbiamo già parlato. Per esempio, l’ultima chicca uscita è un film chiamato Sierra Burgess is a Loser, con protagonista Shannon Purser, la Barb di Stranger Things – che a quanto pare per l’occasione si è portata appresso il synthpop anni ’80 e i jeans sbiaditi. Il film parte da una premessa che non so definire in altro modo se non strana: Sierra Burgess è una ragazza non canonica, di quelle che in genere fanno da capro espiatorio a quegli eserciti inquietanti di bionde ossigenate coi denti come perle e i capelli talmente tirati nelle code alte da porsi qualche domanda su come faccia il sangue ad arrivare al cervello così – insomma, classiche situazioni in cui da Mean Girls al Signore delle Mosche è un attimo. Una di queste bullette, la Regina George del circondario, decide di giocare un brutto tiro a un quarterback di un’altra scuola che per qualche motivo viene considerato ugualmente sfigato dandogli il numero di Sierra al posto del suo (oh no). Sierra inizia a chattare col ragazzo – convinto di parlare con la bambolona – e succedono casini perché a quanto pare è stata capace di renderla una persona intelligente e interessante. Non so chi abbia mai potuto pensare che basare un intero film sul catfish cercando di renderlo romantico e di farci simpatizzare con la protagonista fosse una buona idea, ma a quanto pare questo qualcuno esiste ed è a piede libero.

Partendo da problemi minori: la ragione per cui molti attori lanciati da ruoli iconici vengono soffocati da questi come fossero catene per tutti gli anni a venire è che gli addetti al casting e i registi pensano che riproporre lo stesso personaggio in cinque o sei salse diverse sia una strategia vincente (tipo Katherine Langford che in Love, Simon fa Hannah Baker con degli amici migliori), e quindi ci ritroviamo con Barb di Stranger Things che invece di morire ammazzata – poverina – da un mostro di D&D combina casini su casini perché fingere di avere un’autostima invece di partire dall’accettazione dei propri disagi non porta e non porterà mai nulla di buono (e almeno il film ha l’onestà di ammetterlo). Il tutto condito da una discreta regia luci e dal synthpop – seriamente, che problema avete tutti col synthpop? E con gli anni ’80 in generale? Perché nel 2018 vogliamo tutti vestirci come i nostri genitori quando avevano la nostra età? A questa e ad altre isterie collettive troveremo risposta in un’altra sede, perché se c’è una cosa che vorrei capire è se queste gerarchie inamovibili (che sono già state smontate in modi molto più intelligenti) siano mai realmente esistite o se ormai siano un topos narrativo così comodo che lo si dà semplicemente per scontato in quasi tutti i film che parlano di scuole superiori.

Il personaggio di Sierra dovrebbe essere positivo e complesso: finalmente abbiamo una protagonista average looking o quantomeno pienamente nella media tra gli estremi di turbognocca e gremlin (sinceramente questa storia che una ragazza grassa sia per forza di cose invariabilmente brutta non mi scende) che non trova la sua massima realizzazione in una dieta e nell’essere convenzionalmente attraente. Ma non basta, e non basterà mai, soprattutto alla luce del fatto che tutta quella pantomima insoffribile da genietto che vive all’ombra dei suoi genitori di successo (due scrittori, uno letterato e l’altra di libri motivazionali da manicomio) viene annullata da un’azione che compie in preda alla frustrazione più nera. Sembra che il punto del film debba essere che è inutile fingere, nascondersi dietro maschere preimpostate e soffocanti, ma il finale lo contraddice totalmente. Sì, il quarterback sfigato ha il cuore d’oro e si prende cura del fratello sordomuto – ed è tra i pochi salvabili in quel delirio – ma siccome il focus è sulle due ragazze importa molto poco.

L’amicizia che viene a crearsi tra Sierra e la bulla-cheerleader Veronica dovrebbe insegnare a mettere da parte le proprie divergenze e lavorare insieme per un… fine strano e poco sensato comunque la si giri. E allora che dovremmo fare? Non difenderci dai bulli perché è comprovato che molti siano venuti su delle tali merdacce per via di situazioni complicate che hanno interiorizzato male? Ciliegina sulla torta, la cheerleader ossigenata che dice a Sierra “You have no idea what it’s like to be me” dopo la Stronzata Suprema. Sì, si riferisce al fatto che la sua vita è ben diversa da quella che mostra ai suoi 20.000 follower su Instagram, e Sierra lo sa, ma sa tanto di certo vittimismo spicciolo che serpeggia sui social network su quanto sia difficile essere belli, e quanto ci si nasconda dietro i Sorrisi Falsi (oh mio *Dio*)  – e non è il tipo di messaggio che un adolescente incasinato dovrebbe introiettare.

A seguire, vorrei entrare più nel dettaglio su alcune specifiche che mi hanno lasciato particolarmente basita.

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To all the boys I’ve loved before: quando gli adolescenti fanno cose da adolescenti (e bene)

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Ultimamente, per curare il mio magone di fine estate, disdegno i teen movies molto meno di quanto facessi fino a un paio d’anni fa. Dopo aver visto To all the boys I’ve loved before, approdato su Netflix nella seconda metà di agosto, sono sempre più convinta di fare bene.

Sono dell’idea che ogni prodotto vada contestualizzato nel suo genere, ed è così anche per le commedie adolescenziali – non in generale i film con protagonisti adolescenti, quelli sono un’altra cosa. Ogni genere ha i suoi stilemi, i suoi trope, i suoi limiti e c’è una certa volontà di superarli, ultimamente, che non può fare che bene. Il primo esempio che mi viene in mente è The edge of 17, filmone (di cui spero di aver modo di parlare quanto prima) di un paio d’anni fa la cui protagonista è – scusate il francesismo – un’insufferable cunt che si veste a cazzo di cane per sentirsi diversa e speciale perché ha avuto un grave lutto in famiglia, e il film non fa nulla per nascondere il fatto che abbia un atteggiamento letteralmente corrosivo nei confronti della vita.

To all the boys I’ve loved before è un prodotto di qualità altrettanto elevata, una commedia romantica con adolescenti che sembrano adolescenti (il primo criterio secondo cui si dovrebbe valutare un film del genere, secondo me) e fanno cose da adolescenti, come le farebbe un adolescente. Anche se ho detto troppe volte “adolescenti”, il punto resta: è un film a cui la generazione di sedicenni di oggi può sentirsi vicina con una certa semplicità.

Il film, adattamento dell’omonimo romanzo di Jenny Han, segue le vicende di Laura Jane Covey, una ragazza di sedici anni nata da padre caucasico e madre di origini coreane (come l’autrice, del resto), alle prese con tutta una serie di normalità che quando hai 16 anni hanno un retrogusto un po’ romantico: le cotte totalizzanti, i romanzi rosa, l’essere invisibile a scuola e l’ansia da separazione dalla sorella maggiore, che a breve inizierà il college in Scozia, a migliaia di chilometri da casa. La vita di Lara Jane è come avvolta in un torpore di sogno; è la tipica ragazzina che preferisce stare a casa a fare maratone di brutti film anni ’80 invece di uscire, perché è timida e delicata in modo tenero (e forse fantasiosamente non invalidante). Sua sorella minore, Catherine detta Kitty, decide di dare una svolta ad una situazione che per quanto confortevole è stagnante e trova la non-così-segreta scatola decorata color blu tiffany in cui Lara Jean conserva cinque lettere d’amore, una per ogni ragazzo per cui si sia presa una cotta devastante. È praticamente il suo unico segreto, insieme al contenuto di alcuni dei romanzi che legge: tra questi cinque ragazzi, i più problematici sono Josh, il suo miglior amico nonché fresco ex cognato, e Peter Kavinsky, belloccio sportivo fidanzato con la stronzetta fighetta biondina della situazione – classico caso di ex miglior amica che si è montata la testa, se credete che non succeda nella vita reale sappiate che è letteralmente successo ad una mia cugina adolescente, di recente.

Queste lettere vengono spedite agli indirizzi dei ragazzi – scritti sul retro della lettera perché a Lara Jean piace rischiare, ma non troppo – e nelle 24 ore successive si scatena un pandemonio: dei cinque riceventi, solo tre sono fisicamente presenti. Lara Jane evita Josh come la peste per l’imbarazzo, uno dei ragazzi meno recenti, Lucas, chiarisce subito di essere gay e inaspettatamente Peter Kavinsky, fresco di rottura con l’ex amica di Lara Jane, le propone un piano bizzarro: per far ingelosire la sua ex, vorrebbe frequentare “per finta” Lara Jane.

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