La Belle Époque, o la nostalgia ai tempi di Black Mirror

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Quante volte, spesso senza piena consapevolezza, abbiamo desiderato vivere in un momento storico lontano dal nostro? Ne La Belle Époque, film di Nicolas Bedos presentato alla Festa del Cinema di Roma, l’agenzia Time Traveller ti permette di sperimentare qualsiasi epoca a pagamento. Non una semplice rievocazione storica: gli ambienti presentano una cura maniacale del dettaglio, frutto delle manie perfezioniste del regista Antoine (Guillaume Canet), e gli attori sono tutti ben informati sui personaggi da interpretare. Si può vivere una scena alla Bastardi Senza Gloria o dare fuoco agli schiavisti, come si vede nel trailer-nel-trailer che apre il film.

I veri protagonisti, però, sono Victor (Daniel Auteuil) e Marianne (Fanny Ardant), coppia mandata in crisi per le loro visioni diametralmente opposte: lui è un fumettista nostalgico, fortemente giù di morale perché fresco di licenziamento dalla testata per cui disegnava; lei è una psicologa che guida una Tesla ed è perfettamente integrata con la gioventù per quanto riguarda l’uso della tecnologia.

Quando lei lo caccia di casa, per consolarlo il figlio gli fa un regalo speciale: un buono per un viaggio nel tempo con Time Traveller. Sulla scelta del momento, Victor non ha alcun dubbio: 16 maggio 1974, il giorno in cui si è innamorato di Marianne.

E Antoine, grande ammiratore di Victor, si mette all’opera per regalargli un sogno.

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Anon: un titolo, un programma

Restando nel regno del cyber thriller, questa settimana torniamo sul genere di Minority Report e Person of Interest con Anon, una produzione Netflix firmata Andrew Niccol (sceneggiatore di The Truman Show) con protagonisti Clive Owen e Amanda Seyfried. Il film segue le vicende dell’agente Sal Frieland, tipico poliziotto da noir tutto trench, whiskey e sigarette con il bonus della vicenda familiare travagliata, che si ritrova invischiato nella rete di un super hacker; la caratteristica interessante del caso è che è calato in un’ambientazione d’immediato futuro in cui la tecnologia ha fatto progressi tali da poter consentire l’invio alle persone – e in particolare a chi lavora per le forze dell’ordine – di un flusso di dati continuo su tutto ciò che le circonda. Visivamente, il tutto è reso in maniera decisamente interessante: lampeggiano scritte in sovrimpressione, vengono identificati dei marchi noti, e l’accesso ai dati altrui viene mostrato attraverso dei filmati in prima persona; in questo modo ci si può muovere non soltanto all’interno dei propri ricordi, come nel famoso episodio di Black Mirror (quello con Jodie Whittaker in tempi non sospetti), ma anche all’interno della mente altrui, trattata in tutto e per tutto come un computer.

Naturalmente, un qualsiasi sistema tecnologico nato e sviluppato per garantire il comfort e la sicurezza dei cittadini, è fallibile. Il film non vuole insistere sulle ragioni etiche dietro la labilità del confine, ma preferisce restare sul gioco di scaltrezza dell’hacker, che sfugge nascondendosi nel punto cieco tra il reale e il tecnologico; scelta saggia, visto il tenore generale della pellicola.

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Bandersnatch: un incubo personalizzato

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Black Mirror e il Natale sono un binomio decisamente insolito, ma che dai tempi di White Christmas (2014) si è dimostrato vincente. L’anno scorso si è chiuso in bellezza col rilascio della dibattuta quarta stagione, che ci ha regalato chicche come Arkangel e Metalhead (più qualche episodio meno riuscito, ma si sa che con Black Mirror va così), e quest’anno l’asticella del rischio è stata notevolmente alzata con il rilascio del chiacchieratissimo film Bandersnatch.

Che cos’ha di tanto speciale? Perché è stato rilasciato come singolo? In fin dei conti, anche Hated in the Nation è lungo quanto un TV movie, ma è semplicemente contato come finale di stagione (magistrale) della terza.

Bandersnatch ha di unico, meme a parte, l’essere un episodio interattivo. Dal proprio computer, tablet o cellulare sarà quindi possibile alterare la prosecuzione della trama attraverso un sistema di scelte multiple; in sé non è una meccanica rivoluzionaria, tant’è che le avventure punta e clicca e le visual novel sono generi popolarissimi, ma applicarla a un girato tradizionale esercita un discreto fascino.

Ed è proprio qui il punto di forza dell’episodio, insieme al resto.

Se contiamo soltanto la trama, Bandersnatch sarebbe un buon episodio di Black Mirror: segue le vicende del giovane Stefan (Fionn Whitehead), intento a programmare la demo di un videogioco ispirato al libro che dà il titolo alla puntata, che a sua volta è il nome di un leggendario videogioco anni ‘80 mai finito. Un gioco di richiami inevitabilmente meta che si diramano per tutto l’episodio, mentre lo spettatore accompagna (o, per meglio dire, spinge) il protagonista sempre più in fondo ad una rete di paranoia e teorie del complotto, con tanto di documentario sulla follia dell’autore del libro e simboli nuovi misti ad altri già visti. Il tutto confezionato in una cornice anni ’80 – essendo il film ambientato nell’emblematico anno 1984 – che razionalmente sappiamo riconoscere come trita e ritrita, ma che a livello istintuale ci piace e ci gasa.

Ma c’è molto più di questo.

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VERSUS – Psycho-Pass vs Black Mirror: un futuro radioso

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In principio fu Philip K. Dick con i suoi androidi e le sue pecore elettriche. Poi venne il resto.

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Se nel 2018 parliamo di distopia fantascientifica, le reazioni sono estremamente polarizzate: o ci si fomenta, o si roteano gli occhi e si sbuffa perché “Mio Dio, ancora?”. Come sempre, ci sono ragioni e torti in entrambi gli approcci già a partire dall’estetica: i cieli plumbei contro cui spiccano i neon della metropoli, i mezzi di trasporto futuristici che sorvolano la città come enormi e minacciosi uccelli di metallo, le giacche di pelle e volti come quelli di Harrison Ford e Ryan Gosling sono ragioni più che valide per appassionarsi al genere, con tutta l’amarezza nel rendersi conto che molte di quelle storie sono ambientate “ai giorni nostri” (e invece stiamo ancora a discutere di vaccini e scie chimiche); d’altro canto, dal momento che ogni distopia risponde ad un’esigenza storica specifica, e non sempre bene, è molto possibile che al giorno d’oggi tutto scada nell’allarmismo inutile e nella banalità (ma anche questa potrebbe essere una lettura superficiale nostra, d’altronde Orwell non ha ricevuto propriamente il plauso della critica), come si legge nelle critiche al recentissimo Detroit: Become Human.

La distopia in sé ha una storia leggermente più vecchia di quanto ci insegnano alle scuole dell’obbligo: fra i primissimi esempi troviamo Il castello (1926) di Franz Kafka, che potremmo scherzosamente riassumere come lo scontro dell’uomo con la burocrazia (laddove per burocrazia si intende il potere), e persino un esempio nostrano, L’uomo è forte (1939), dell’autore calabrese Corrado Alvaro, il quale ha molto a cuore le storie degli “estranei” alla società ed è riuscito a bypassare la censura fascista andando a creare un’inquietante ritratto dell’Italia del Ventennio e che trova dei curiosissimi riscontri – per tematiche ed atmosfera – con un prodotto del millennio attuale scritto dall’altra parte del mondo.

Per qualche motivo, molto di ciò che è scritto ne L’uomo è forte si può ritrovare in Psycho-Pass (2012), serie animata originale diretta da Naoyoshi Shiotani e scritto dall’uomo con il feticismo per la sofferenza più evidente degli anni ’10: Gen Urobuchi, autore del cult Puella Magi Madoka Magica. La serie è, per candida ammissione degli autori, un grandissimo omaggio a Blade Runner in termini di cinematografia ed estetica, 1984 di Orwell per l’ambientazione in cui alla società viene fatto credere che avere telecamere anche al cesso sia un bene, e attua una ibridazione interessante tra il thriller poliziesco e il cyberpunk distopico; nella seconda stagione c’è invece una virata brusca, non apprezzata dai più, verso il thriller morboso alla Hannibal. La storia segue le vicende di un innocente ispettore di polizia, Akane Tsunemori, che nell’autunno del 2112 inizia la propria carriera col botto dopo aver conseguito il massimo punteggio ai test di collocamento – perché nell’universo di Psycho-Pass è un supercomputer chiamato Sybil System, venerato come una sorta di divinità (non che si abbia altra scelta), a “consigliarti caldamente” per quanto riguarda le tue attitudini, la tua dieta, il compagno di vita più adatto a te (senza distinzioni di sesso) e molto altro. La peculiarità di questo mondo apparentemente perfetto è che alle persone viene impiantato alla nascita un chip che funge da tracciatore, non soltanto per la posizione, ma soprattutto per tenere d’occhio quella che in gergo viene definito tonalità o coefficiente di criminalità, ovvero la tendenza criminale di una persona misurata in numeri. Le persone con un coefficiente superiore ai 100 punti vengono definite criminali latenti e internate perché ritenute socialmente pericolose – il problema è che la tonalità cambia anche a seconda dello stress e dell’intensità delle emozioni, quindi ha meno a che fare con la tendenza a commettere crimini di quanto sarebbe comodo credere. Tra questi criminali, alcuni vengono selezionati dal Ministero della Pubblica Sicurezza per svolgere la funzione di esecutori, ovvero agenti di polizia che si occupano di svolgere il lavoro sporco sotto sorveglianza degli ispettori; la vicenda, oltre che ad Akane, ruota intorno anche alla figura di Shinya Kogami, un esecutore che in passato era un ispettore, e che sembra essere particolarmente incarognito dietro quella che pare essere la mente dietro una serie di crimini collegati fra loro. Nel corso della serie, tutti i misteri e le anomalie del Sibyl vengono pian piano smascherate.

Una delle ragioni per cui Psycho-Pass è una serie che può vantare il plauso quasi unanime della critica internazionale è senz’altro il fatto che ad Urobuchi interessa innanzitutto l’introspezione dei personaggi principali – riuscitissima, soprattutto quella di Akane che ha una parabola evolutiva magistrale che trova il suo apice nella seconda stagione – e nell’imbastitura del grandioso piano del villain per smantellare una società che, a conti fatti, non funziona. Ed è anche questo fatto che l’antagonista parta da un presupposto con cui lo spettatore non può che concordare a renderla una grande serie.

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