In principio fu Philip K. Dick con i suoi androidi e le sue pecore elettriche. Poi venne il resto.
ATTENZIONE: L’articolo nella sua interezza contiene SPOILER
Se nel 2018 parliamo di distopia fantascientifica, le reazioni sono estremamente polarizzate: o ci si fomenta, o si roteano gli occhi e si sbuffa perché “Mio Dio, ancora?”. Come sempre, ci sono ragioni e torti in entrambi gli approcci già a partire dall’estetica: i cieli plumbei contro cui spiccano i neon della metropoli, i mezzi di trasporto futuristici che sorvolano la città come enormi e minacciosi uccelli di metallo, le giacche di pelle e volti come quelli di Harrison Ford e Ryan Gosling sono ragioni più che valide per appassionarsi al genere, con tutta l’amarezza nel rendersi conto che molte di quelle storie sono ambientate “ai giorni nostri” (e invece stiamo ancora a discutere di vaccini e scie chimiche); d’altro canto, dal momento che ogni distopia risponde ad un’esigenza storica specifica, e non sempre bene, è molto possibile che al giorno d’oggi tutto scada nell’allarmismo inutile e nella banalità (ma anche questa potrebbe essere una lettura superficiale nostra, d’altronde Orwell non ha ricevuto propriamente il plauso della critica), come si legge nelle critiche al recentissimo Detroit: Become Human.
La distopia in sé ha una storia leggermente più vecchia di quanto ci insegnano alle scuole dell’obbligo: fra i primissimi esempi troviamo Il castello (1926) di Franz Kafka, che potremmo scherzosamente riassumere come lo scontro dell’uomo con la burocrazia (laddove per burocrazia si intende il potere), e persino un esempio nostrano, L’uomo è forte (1939), dell’autore calabrese Corrado Alvaro, il quale ha molto a cuore le storie degli “estranei” alla società ed è riuscito a bypassare la censura fascista andando a creare un’inquietante ritratto dell’Italia del Ventennio e che trova dei curiosissimi riscontri – per tematiche ed atmosfera – con un prodotto del millennio attuale scritto dall’altra parte del mondo.
Per qualche motivo, molto di ciò che è scritto ne L’uomo è forte si può ritrovare in Psycho-Pass (2012), serie animata originale diretta da Naoyoshi Shiotani e scritto dall’uomo con il feticismo per la sofferenza più evidente degli anni ’10: Gen Urobuchi, autore del cult Puella Magi Madoka Magica. La serie è, per candida ammissione degli autori, un grandissimo omaggio a Blade Runner in termini di cinematografia ed estetica, 1984 di Orwell per l’ambientazione in cui alla società viene fatto credere che avere telecamere anche al cesso sia un bene, e attua una ibridazione interessante tra il thriller poliziesco e il cyberpunk distopico; nella seconda stagione c’è invece una virata brusca, non apprezzata dai più, verso il thriller morboso alla Hannibal. La storia segue le vicende di un innocente ispettore di polizia, Akane Tsunemori, che nell’autunno del 2112 inizia la propria carriera col botto dopo aver conseguito il massimo punteggio ai test di collocamento – perché nell’universo di Psycho-Pass è un supercomputer chiamato Sybil System, venerato come una sorta di divinità (non che si abbia altra scelta), a “consigliarti caldamente” per quanto riguarda le tue attitudini, la tua dieta, il compagno di vita più adatto a te (senza distinzioni di sesso) e molto altro. La peculiarità di questo mondo apparentemente perfetto è che alle persone viene impiantato alla nascita un chip che funge da tracciatore, non soltanto per la posizione, ma soprattutto per tenere d’occhio quella che in gergo viene definito tonalità o coefficiente di criminalità, ovvero la tendenza criminale di una persona misurata in numeri. Le persone con un coefficiente superiore ai 100 punti vengono definite criminali latenti e internate perché ritenute socialmente pericolose – il problema è che la tonalità cambia anche a seconda dello stress e dell’intensità delle emozioni, quindi ha meno a che fare con la tendenza a commettere crimini di quanto sarebbe comodo credere. Tra questi criminali, alcuni vengono selezionati dal Ministero della Pubblica Sicurezza per svolgere la funzione di esecutori, ovvero agenti di polizia che si occupano di svolgere il lavoro sporco sotto sorveglianza degli ispettori; la vicenda, oltre che ad Akane, ruota intorno anche alla figura di Shinya Kogami, un esecutore che in passato era un ispettore, e che sembra essere particolarmente incarognito dietro quella che pare essere la mente dietro una serie di crimini collegati fra loro. Nel corso della serie, tutti i misteri e le anomalie del Sibyl vengono pian piano smascherate.
Una delle ragioni per cui Psycho-Pass è una serie che può vantare il plauso quasi unanime della critica internazionale è senz’altro il fatto che ad Urobuchi interessa innanzitutto l’introspezione dei personaggi principali – riuscitissima, soprattutto quella di Akane che ha una parabola evolutiva magistrale che trova il suo apice nella seconda stagione – e nell’imbastitura del grandioso piano del villain per smantellare una società che, a conti fatti, non funziona. Ed è anche questo fatto che l’antagonista parta da un presupposto con cui lo spettatore non può che concordare a renderla una grande serie.
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