Volevo nascondermi: comunicare il mondo, quando il mondo non ascolta

I film che raccontano le vite degli artisti, come in generale quelli che raccontano vite di cui si conoscono i dettagli o meno, rischiano spesso di impelagarsi nella funzionalità della narrazione, creando personaggi che si muovono da un punto A ad un punto B che pur facendo maggiormente breccia nel cuore dello spettatore non sono davvero corrispondenti alle loro realtà. Con l’artista Antonio Ligabue non sarebbe stato possibile in ogni caso, proprio perché si tratta di un artista neurodivergente, affetto da nevrosi che impediscono di crearvi attorno una narrazione lineare. Eppure, Volevo nascondermi riesce a creare non soltanto una grande empatia con la figura di un artista che ha raccontato un mondo interiore prezioso e sostanzialmente inedito, ma a raccontare attraverso dei fotogrammi di vita il distacco tra chi veniva messo ai margini della società e le figure che successivamente hanno deciso di capitalizzare sulla sua esistenza.

Volevo nascondermi narra la vita di Antonio Ligabue sin dall’infanzia travagliata vissuta in Svizzera, con in più anche la difficoltà della barriera linguistica oltre che quella legata alla neurodivergenza dello stesso Ligabue, e agli infiniti ricoveri tra una struttura e l’altra, con brevi interruzioni solo per le mostre o le esposizioni in atelier. A quel punto, è l’arte a diventare strumento di comunicazione per Ligabue, che trova così un attaccamento alla vita nell’unico mezzo di comunicazione a sua disposizione.

Il film è stato premiato con sette David di Donatello: Miglior film e Miglior regia, Miglior attore protagonista ad Elio Germano, Miglior autore della fotografia, Miglior suono, Miglior scenografo e Miglior acconciatore.

ATTENZIONE: Il testo a seguire contiene SPOILER

Continua a leggere

Favolacce: si può davvero fuggire dai mostri?

favolacce-copertina

Il rischio di prendere un tema universale come quello del divario generazionale tra genitori e figli è di fare un film già fatto. Con Favolacce, i fratelli D’Innocenzo (classe 1988) si sono assunti questa responsabilità e hanno rimodellato una materia nota secondo un proprio gusto unico, conquistando l’Orso d’argento alla 70esima Berlinale. Il film è disponibile a noleggio sulle maggiori piattaforme digitali: YouTube, Google Play, Sky Primafila, Infinity TV, Chili e tante altre. Il prezzo è quello medio di un biglietto in sala: una scelta che non fa bene ai piccoli esercenti, ma che forse aiuterà il film a raggiungere un pubblico più vasto che con la distribuzione in sala, che penalizza le zone dove la programmazione vira verso titoli più remunerativi.

Un cammino fatto (letteralmente) mano nella mano quello dei gemelli, che hanno imbastito una narrazione non del tutto lineare basandosi sul topos narrativo del ritrovamento. Non il classico “found footage”, anche se in una storia di famiglie sarebbe potuto essere interessante per ricostruire la loro quotidianità, ma il diario di una bambina scritto in penna verde e riempito nei suoi vuoti da un narratore esterno e annoiato (la voce di Max Tortora). Il diario s’interrompe bruscamente, il perché verrà spiegato – più o meno – alla fine, ma al narratore sembra non interessare.

La scena si apre su una famiglia raccolta in soggiorno a guardare il telegiornale: c’è stato un tremendo caso di cronaca, bambina di quattro mesi annegata, doppio suicidio dei genitori lanciatisi dal balcone di una camera di un motel. Questa famiglia fa parte di un piccolo agglomerato residente nel quartiere di Spinaceto, una zona della periferia Sud di Roma che non assomiglia alle periferie mostrate sinora. Non ci sono tavolozze fredde e desaturate ad accompagnare lo spettatore, ma uno scenario luminoso, quasi idilliaco, dove prevalgono i bianchi e le tinte tenui degli interni e degli esterni delle case. I tratti dei bambini sono delicati, come disegnati con linee morbide: sono gli adulti, infatti, ad essere più ruvidi.

ATTENZIONE: Il testo a seguire contiene SPOILER Continua a leggere

L’uomo senza gravità: tante idee, tutte volate via

106842-1024x576

Ultimamente, anche l’Italia si sta cimentando nella produzione di originali Netflix, utilizzando uno stratagemma simile a quello americano: pochi giorni di distribuzione in sala, e poi dritto in piattaforma. È stato così per progetti più seri come il film Sulla mia pelle, e lo stesso vale per prodotti più leggeri. Così, a ridosso della scorsa Festa del Cinema di Roma è arrivato in sala per qualche giorno L’uomo senza gravità, una commedia di Marco Bonfanti con Elio Germano.

La storia segue le vicende di Oscar, un bambino speciale nato “senza gravità”. Fin dai primi istanti di vita fluttua, ma non viene mai chiarito il perché; la madre passa la maggior parte del tempo a nasconderlo, non consentendogli di andare a scuola o di avere amici per mantenere il segreto. Questo finché non è lo stesso Oscar a decidere di stringere amicizia con una bambina, Agata, che per un incidente scoprirà i suoi poteri. A causa di una fuga di informazioni (pur contenuta) la madre decide di trasferire tutta la famiglia in una zona remota del nord Italia. Da lì, la vita di Oscar prende una direzione inaspettata.

La domanda più curiosa a cui risponde il film è questa: si può girare un prodotto che non abbia sceneggiatura?

ATTENZIONE: Il testo a seguire contiene SPOILER  Continua a leggere