L’uomo senza gravità: tante idee, tutte volate via

106842-1024x576

Ultimamente, anche l’Italia si sta cimentando nella produzione di originali Netflix, utilizzando uno stratagemma simile a quello americano: pochi giorni di distribuzione in sala, e poi dritto in piattaforma. È stato così per progetti più seri come il film Sulla mia pelle, e lo stesso vale per prodotti più leggeri. Così, a ridosso della scorsa Festa del Cinema di Roma è arrivato in sala per qualche giorno L’uomo senza gravità, una commedia di Marco Bonfanti con Elio Germano.

La storia segue le vicende di Oscar, un bambino speciale nato “senza gravità”. Fin dai primi istanti di vita fluttua, ma non viene mai chiarito il perché; la madre passa la maggior parte del tempo a nasconderlo, non consentendogli di andare a scuola o di avere amici per mantenere il segreto. Questo finché non è lo stesso Oscar a decidere di stringere amicizia con una bambina, Agata, che per un incidente scoprirà i suoi poteri. A causa di una fuga di informazioni (pur contenuta) la madre decide di trasferire tutta la famiglia in una zona remota del nord Italia. Da lì, la vita di Oscar prende una direzione inaspettata.

La domanda più curiosa a cui risponde il film è questa: si può girare un prodotto che non abbia sceneggiatura?

ATTENZIONE: Il testo a seguire contiene SPOILER 

Apparentemente sì, dato che questo film non ha una sceneggiatura. A parte un po’ di richiami tematici qua e là che ti fanno capire che esiste una parvenza di collegamento tra le vicende mostrate.

Davvero, è come se esistessero tre storie diverse concentrate in una. C’è la storia del bambino con i poteri che viene tenuto in casa e pian piano si abitua al mondo di fuori, anche grazie al rapporto con l’amica Agata. C’è l’elemento tematico dello zainetto rosa, con tanto di frase progressista della mamma («Anche ai maschi può piacere il rosa») contestualizzata sul finire degli anni 80. C’è il cartone di Batman, quello straordinario degli anni 90 che andava in onda su Italia 1, che ricorre. Ma niente, la questione del bambino magico viene liquidata in breve, troncata senza motivo.

Si passa poi ad un Oscar adulto, non scolarizzato ma molto colto. Per due volte nella sua stanza vengono inquadrate le copertine del libro Peter Pan, e viene mostrato mentre guarda qualche episodio di “Per un pugno di libri” con Neri Marcorè. Sembrerebbe voler prendere quella direzione, ma niente: un giorno vede la pubblicità di un talent, si ricorda di saper volare e decide di portare quell’abilità sul piccolo schermo.

C’è una lunga, lunghissima sequenza – forse l’unica che abbia pienamente senso nel film – sulla sua ascesa alla fama, sul deterioramento (parziale) del rapporto con la madre e sul fatto che decida di farsi dare per morto per un mezzo esaurimento nervoso avuto durante una trasmissione. E il film forse doveva chiudersi lì, ma a quel punto cosa ne sarebbe stato della piccola Agata?

Lei torna nel terzo atto, sotto forma di escort di lusso, nell’albergo dove Oscar lavora come portiere notturno. Tralasciando il fatto che si faccia passare per “falso” invalido in carrozzella, quando bastava veramente mettersi dei pesetti in tasca come aveva pensato la madre a inizio film. Vabbè.

Uno dei tanti peccati mortali del film è che non fa vedere letteralmente nessuno degli avvenimenti significativi per una crescita emotiva del protagonista (che, neanche a dirlo, non c’è). Occorre qui fare un passo indietro: Oscar è stato cresciuto da madre e nonna. Entrambe muoiono off-screen, presumibilmente di vecchiaia. Il ragazzo non sembra risentirne minimamente, non le nomina mai dopo la scomparsa – e la nonna era pure una figura imponente, interpretata da Elena Cotta (Coppa Volpi a Venezia 70).

È come se il regista avesse frainteso cos’è la divisione in tre atti, creando tre situazioni male intersecate. La terza, poi, oscilla tra il suscitare frustrazione e imbarazzo: ok, Oscar ha incontrato Agata, che ora è nel circuito del sex work autogestito (che non è una cazzata). Perché lo spettatore dovrebbe credere che siano entrambi presi l’uno dall’altra romanticamente, se erano stati presentati come bambini e come amici? Perché mai il film cerca di buttar dentro uno sprazzo di realtà con la sfuriata di Agata? Per non parlare della prova attoriale pessima di Silvia D’Amico, che è un blocco di marmo e viene oscurata completamente dalla comparsata frizzante di Cristina Donadio (Scianel di Gomorra).

E poi, soprattutto, perché risolve la crisi in tre secondi con un timeskip? Ok, ci sta che siano tornati a vivere nel luogo dove sono stati felici da bambini, ma intanto alla fine dei giochi non sappiamo perché Agata sia diventata una escort – e perché sia ricomparsa al “terzo atto”. Si salva, forse, solo il finale per la battuta del vecchietto dell’ospizio, ma anche lì: dov’è il passaggio dal non voler far sapere a nessuno dei poteri all’usarli come competenza lavorativa? E, soprattutto, il ragazzo era stato dato per morto. Come si copre da un punto di vista mediatico una notizia di questa portata? Fate vedere allo spettatore almeno una prima pagina con su scritto “I lavavetri volano: Oscar è tornato”, non so, qualcosa che suggerisca che gli avvenimenti di questo film abbiano una qualche correlazione causa-effetto.

Mi ero chiesta perché il film fosse passato in sordina, essendo un prodotto quasi di genere. Ma alla fine, è meglio così: è un prodotto che poteva fare qualsiasi cosa, e ha deciso di non fare davvero nulla.

Lascia un commento