I figli del mare: crescere significa rispondere al canto dell’universo

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Con I figli del mare, il regista Ayumu Watanabe ha dato una forma concreta alla sensazione che accomuna tutti gli esseri umani per natura: quella di essere infinitamente piccoli in confronto all’universo (rappresentato nelle forme sterminate del mare e del cielo) e quella di voler disperatamente appartenere ad esso.

La storia parla di Ruka, ragazza delle medie che vive come chiusa in una bolla, alienata dagli affetti dei coetanei ed emotivamente distante dai genitori. La sua strada incrocerà quella di due misteriosi ragazzi venuti dall’oceano: Umi e Sora. Due nomi altamente simbolici, il cui significato sarà il pilastro della potentissima narrazione che si snoda per le quasi due ore del film.

Questi due ragazzini, che hanno forma umana ma non sentono o pensano come persone della loro età, strapperanno Ruka alla mediocrità del suo quotidiano e le mostreranno quali segreti sommersi (letteralmente e non) nasconde il mondo. Tutto questo, in attesa della grande cerimonia cosmica a cui i due prenderanno parte. Seguendo il richiamo delle megattere, i tre protagonisti si avventureranno tra paesaggi irreali e coloratissimi, in cui i corpi minuti quasi svaniscono.

È una storia di crescita abbastanza atipica, soprattutto perché mostra il cambiamento nella protagonista più spesso attraverso la fisicità e i gesti che non con la parola. Perché la parola, in questo film, è quasi superflua: il centro di tutto è la comunicazione.

ATTENZIONE: Il testo a seguire contiene SPOILER Continua a leggere